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Dalle dancehall di Kingston ai bassifondi di Bristol, passando perfino per Clash e Bad Brains, il dub ha subito innumerevoli trasformazioni, a dimostrazione della sua grande versatilità ed estrema libertà, ma anche della sua attitudine alla contaminazione e al cambiamento. È in questo cambiamento che Steppa Lion ha trovato la sua chiave espressiva, con un piede nella tradizione degli esordi e uno nella tecnologia dei giorni nostri. Più che con i piedi forse sarebbe meglio dire con le mani. È con quelle che Steppa suona, agendo su fader, controller, canali, effetti, equalizzazioni e filtri. Molta della sua musica nasce dall’improvvisazione live, durante i quali, regolandosi in base alle reazioni del pubblico, modula e modifica le sue version. Ha raccolto la mission originaria del reggae e anche lui, a suo modo, si è fatto portatore di messaggi “politici” e istanze sociali. Lo ha fatto attraverso innumerevoli partecipazioni, live set e progetti paralleli, e grazie al supporto di tanti musicisti che hanno creduto in lui.

Intervistare un musicista dub non capita tutti i giorni. Ne abbiamo approfittato per toglierci qualche curiosità, capire meglio un genere-non genere che tutti abbiamo ascoltato e, forse, ballato, e entrare nelle dinamiche di chi, agendo sulle manopole di un controller, riesce a portare in pista quelle good vibrations di cui ogni tanto si sente il bisogno.

 

Ciao Nicola. Il DUB è un “genere”, se così si può definire, nato come rivisitazione di brani reggae ma nel tempo è stato soggetto alle influenze delle musiche più disparate, tanto da diventare più un approccio al missaggio e alla re-interpretazione di altri generi che una corrente stilistica ben definita. Se agli ascoltatori di scuola anni ’90 il Dub è noto per l’affermazione di band come quelle dell’area di Bristol, evolutisi poi nel trip hop, o per collettivi come gli Asian Dub Foundation, nei tuoi brani è invece particolarmente evidente la derivazione caraibica originaria del “genere”. Vorresti provare tu a raccontarci un po’ la tua musica?

Ciao a tutti. Non è un discorso semplice. Il dub è un fenomeno contemporaneo, ancora attuale e in divenire. I pionieri della Sound System culture esordirebbero dicendo “Dub is the version” perché il dub è nato come versione strumentale di un brano reggae. I musicisti cercavano di enfatizzare le sessioni ritmiche dei pezzi mentre gli ingegneri del suono utilizzavano delay e riverberi in maniera creativa (e assolutamente pionieristica) sulle tracce. Il risultato fu così caratteristico da esser stato percepito erroneamente come altro genere da buona parte degli ascoltatori estranei alla cultura Giamaicana. Con l’immigrazione in Inghilterra, il reggae e la cultura sound system si radicano anche nei quartieri popolari come Brixton che diventano nuovi centri musicali e culturali.

Negli anni ’90, la digitalizzazione delle tecnologie incontra questa realtà permettendo approcci prima tecnicamente impossibili. Il dub smette di essere necessariamente subordinato all’esistenza di un brano, inizia a essere indipendente e ad esistere sempre più spesso in altre forme oltre al vinile.

Musicalmente invece gli elementi caratteristici delle prime version trovano un campo ampio e ricco di sperimentazione. Le ritmiche rockers degli anni ’70 vengono tradotte in digitale, diventa possibile arrivare a frequenze ancora più basse comportando un allontanamento sempre più radicale rispetto ai giri di basso più comuni del reggae degli anni ’70.

La mia musica si colloca all’interno di questa tradizione musicale di sperimentazione digitale hi tech del reggae rocker, diversamente da progetti come Asian Dub Foundation che sono strumentali e fanno una ricerca più legata alla contaminazione, utilizzando tecniche proprie del dub su brani che raramente si possono classificare come reggae.

 

Tu stesso hai definito il Dub “la scomposizione e ricomposizione creativa di un brano reggae”, e in live hai dichiarato di non utilizzare una traccia strutturata, bensì di conferire al brano un’ossatura, dettata dal pubblico e dalla situazione in generale, al fine di “rendere centrale il ruolo dell’improvvisazione”. Puoi spiegarci meglio questo approccio? Che cosa nasce in studio e cosa invece nasce al momento nelle tue esibizioni dal vivo?

Non è una definizione mia, non ricordo da dove arrivi. Faccio quello che facevano i vecchi dubmaster in studio o nei live set, ma in chiave digital. Invece di un mixer analogico, utilizzo un controller digitale impostato come se fosse un mixer a 8 canali. Ogni fader del controller corrisponde ad un canale del mixer e quindi ad uno strumento, e per ogni strumento, con il controller, manipolo effetti, equalizzazioni e filtri. Utilizzo una piattaforma multitraccia con cui far partire i pezzi, che poi strutturo ed effetto in live attraverso il controller stesso. L’improvvisazione è stato forse il punto di incontro con Diego (Aka Dub Astaire, ndr). Io volevo fare Dub dal vivo e lui veniva da tradizioni musicali molto affini all’improvvisazione.

 

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Attingendo, anche in questo, a piene mani del reggae, il dub ha conservato uno spirito “politico” e civile rilevante. In che modo anche musiche prettamente strumentali possono farsi veicolo di significati “politici”?

Credo che anche musiche prettamente strumentali possano farsi veicolo di significati “politici”. Associo questa cosa al significato che determinati accordi possono acquistare in un certo contesto. Fischiettare gam gam durante una parata nazista sarebbe stato un gesto politico. Questo per il senso che attribuiamo alla melodia a prescindere dalle parole cantate. La musica elettroacustica è intrinsecamente sovversiva, rompe un po’ tutte le regole, e il reggae non fa eccezione: è una musica ribelle. Nelle mie version per il progetto Dub Liberation Front ho inserito delle sessioni di percussioni nyahbingi, che caricano i pezzi di un significato spirituale e intrinsecamente politico: nyahbingi significa “morte agli oppressori” e chiunque conosca il battito di quei tamburi sa che si tratta di un ritmo sacro di protesta.

 

A proposito di Dub Liberation Front, avviato in collaborazione con Dub Astaire e per il quale hai firmato un contratto di distribuzione per l’etichetta americana Ohm Grow Record: anche in questo progetto pare abbiate cercato di conservare quello spirito originario. Puoi raccontarci qualcosa di più a riguardo? 

In principio il progetto non doveva essere politico nei termini esposti prima. Doveva essere un lavoro diverso. È stata l’etichetta che poi ha prodotto il lavoro a non lasciarci il tempo per insistere e avere almeno sei tracce nel giro di poche settimane. In principio volevo inserire nelle tracce delle section di voce prese da discorsi di grandi rivoluzionari, come Lumumba di N’Krumah o un ufficiale Zapatista. Per via delle pressioni si è trasformato in un lavoro esclusivamente strumentale, più spirituale e metafisico che politico. Si “parla” delle connessioni fra il sé e il tutto. Abbiamo provato a partire dal concetto Rasta di I’n’I e giocare con la parola universo, che con le i-word diventa iniverse, un viaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.

Diego improvvisava in diversi progetti di musica elettroacustica, mentre io volevo farlo utilizzando il mixer. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme per fondere le due cose. Su tutto il disco si trovano composizioni di Diego utilizzate come ambienti e suoni di fondo. In live, gestire contemporaneamente 8 strumenti, i rumori di fondo, gli effetti, una sirena, i volumi e il pc è sempre stato tecnicamente complicato. Presupponeva strutture minime e perciò ci siamo sempre trovati d’accordo sul preferire l’improvvisazione.

 

Sei stato “iniziato” al Dub , quasi dodici anni fa, da musicisti del calibro di Sensitive Dub e King Kietu, tra i pionieri del genere nell’isola. Che cosa ti hanno dato e in che modo il loro apporto ti ha spinto ad affinare le tue capacità di missaggio e composizione?

Se non fosse per Fabio Schirru aka Sensitive Dub (ora meglio noto come Tellas), oggi non suonerei proprio. Devo veramente tutto a Fabio: lui mi ha insegnato le basi fondamentali del reggae e quelle del software che usavamo all’epoca. Esseri umani fighi come Tellas è difficile trovarne. Lui mi ha presentato King Kietu che mi ha dato moltissime dritte tecniche nel corso del tempo. Quando non funziona qualcosa o per qualsiasi problema tecnico, Kietu è una delle persone più autorevoli che conosca, il santo a cui appellarsi. Anche lui figo come pochi.

 

Da qualche anno anche in Sardegna si assiste a una rinascita del reggae e di generi affini. Si sono moltiplicati i festival – come il Sardinia Reggae Festival, il Seleni Summer Splash, Unity Culture Reggae Fest o il Medio Jamaicano Reggae Festival – e non è più cosa rara trovare dei locali dove si organizzano delle dancehall. Segno che ormai ci sono sempre più band di spessore – e di rilevanza anche extra-regionale – , che queste hanno sempre più seguito e che il consenso viene rinnovato di anno in anno. Tu, che avrai seguito da vicino questa diffusione, che idea ti sei fatto in proposito?

Penso che il reggae abbia attecchito bene fin dagli esordi in questa terra. Il merito principale credo che si debba riconoscere al Sardinia Reggae Festival che ha portato i migliori artisti della scena del reggae internazionale a contatto con le nostre realtà. Ovviamente è stata determinante la presenza di band che hanno vinto festival di rilevanza internazionale, come i Train to Roots, altri big come Forelock & ArawakSista Namely & the Islanders. Hanno i loro meriti anche tutte quelle band e artisti che hanno cercato di mescolare le sonorità reggae alla nostra cultura, a volte in maniera eccelsa come nel caso degli Scekinà. Poi buona parte del merito va sempre riconosciuta a sound systems e selectors che si prodigano in questa missione quotidianamente.

 

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Parliamo della tue collaborazioni con Brincamus. Lo scorso settembre sei stato ospite a Bologna al Bidibi Bodibi Dub – Dub International Festival organizzato da Brincamus, che ti ha visto esibirti insieme con Arrogalla e King Kietu. Sempre con King Kietu, e la collaborazione di Brincamus, hai organizzato lo scorso 1 ottobre un bell’evento all’Anyway Club di Cagliari, che ha visto come ospite d’onore Don Fe e il suo flauto magico. Ci vuoi raccontare com’è andata?

A Bologna ho conosciuto lo staff di Brincamus e mi hanno fatto tutti un’ottima impressione. È stata una bella esperienza e sono stato molto entusiasta di rincontrare Arrogalla e King Kietu che non vedevo da diverso tempo.

Per la serata all’Anyway Club sono stato molto contento del fatto che siamo riusciti a coinvolgere, attraverso l’ASCE (Associazione Sarda Contro l’Emarginazione, ndr), altre associazioni, e qualche refugee dai vari centri di accoglienza. Don Fe si è confermato un grande artista e una persona fantastica.

 

Al Malu Entu Pub a Cagliari, si è svolto la scorsa domenica, il Dub Club Sardinia Chapther 1, primo di una serie di appuntamenti. Com’è andata? E che cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi capitoli di questa saga che, già dalle premesse, si preannuncia piuttosto interessante?

E’ stata l’inaugurazione, un capitolo introduttivo domenicale senza troppe pretese. L’idea è quella di coinvolgere un po’ tutti i sound e i cantanti, e invitarli a cantare sulle version come vuole la tradizione del Dub Club.

 

Un altro importante appuntamento è stato quello del 28 gennaio al Anyway Club di Cagliari, che ti ha visto alla consolle con Isla Sound, e a scandire le esibizioni di Rootsman I, Bujumannu, Sista Namely, Mistah Kayaman, Anthony Screwface, Momar Gaye e Charlie P., cantante di punta della scena reggae continentale. Altro segno che dimostra quanto unita e attiva oltre i confini regionali sia la “vostra” community musicale. Com’è andata?

E’ stata una super serata e un grande onore per me condividere il palco con artisti di questo livello. Charlie P è un fenomeno. Il quattordicesimo compleanno di Isla Sound è stato celebrato in maniera degna. Coglierei l’occasione per ringraziarli e rinnovare i miei migliori auguri.

 

Anche a te, degno rappresentante di questa bella cultura di amistade, che ben si è radicata nella nostra isola, chiedo di porgere i tuoi saluti ai fratelli di Brincamus.

Ringrazio tutti voi di cuore per il lavoro fatto finora e per quello che ancora farete.

 

A cura di Simone La Croce

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La Sound System Culture nel dub di Steppa Lion