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Claudia Aru, villacidrese, classe 1981, dopo aver girato mezzo mondo tra Bologna, Barcellona, New York e Roma, quasi dieci anni fa torna in Sardegna per avviare la sua attività di musicista e cantante. Queste esperienze hanno contribuito in maniera determinante a plasmare la Claudia che tutti conoscete oggi, sia sul versante musicale sia su quello sociale e politico, che in lei convivono quasi fino a fondersi. Claudia non si definisce infatti una cantante ma bensì una “vocalist con una missione sociale“. Missione sociale che fa proprie tante istanze tutte assolutamente contemporanee e attuali: dal femminismo all’estensione dei diritti civili, poi ancora le battaglie contro il razzismo, il patrocinio del Gay Pride a Alghero, la tutela, intesa come normalizzazione, della lingua sarda, l’indipendentismo e la salvaguardia dell’ambiente. Battaglie e lotte che le hanno causato non pochi problemi ma che ha portato con coraggio e ironia dentro la sua musica e in tutte le piazze della Sardegna, e non solo, guadagnando un grande consenso di pubblico e critica.

Con un interlocutore così non potevamo rimanere a corto di argomentazioni e quando l’abbiamo raggiunta telefonicamente si è parlato inevitabilmente di tutto, dalla politica ai suoi tanti progetti, passati, attuali e futuri. Ne è venuta fuori un’intervista non certo conforme ai dettami comunicativi contemporanei ma che vi consigliamo vivamente di leggere comunque fino in fondo perché ne vale la pena.

 

Ciao Claudia. A tuo modo sei diventata, almeno in Sardegna, un’icona femminile contemporanea. A differenza di altre brave cantanti, hai saputo trovare un piglio meno tradizionalista, volendo più sfacciato, un po’ meno da brava ragazza, e non solo per i tatuaggi. Finalmente. Come mai secondo te, prima di te non ci era arrivata nessuna delle tue predecessore? (proprio così, anche se non si può sentire…)

Innanzitutto grazie! Io non mi definirei una cantante. Mi definirei più una sorta di vocalist con una missione “sociale”. Politica e non partitica. Per quanto riguarda invece la sfacciataggine posso dire che probabilmente passo per sfacciata perché dico quello che penso, senza compromessi e senza pormi molte remore. In questo senso sì, riconosco che sono sfacciata. Io ho provato a coniugare due mie forti passioni. Da una parte la politica, a cui mi sono sempre appassionata militando per 10 anni all’interno dell’indipendentismo interventista, quello più fattivo e meno intellettuale, durante i quali ho imparato a confrontarmi con il pubblico e a fare mie molte battaglie. Dall’altra gli aspetti sociologici e antropologici. Io sono innamorata dei miei tempi, mi piace analizzarli e commentarli, cercando di dare il mio piccolo contributo per migliorare quello che non mi piace. Probabilmente sono una “pioniera” in questo senso, almeno tra le donne, perché sono stata smaliziata dalla politica e dai tanti viaggi che ho fatto nella mia vita, che mi hanno aperto la mente e sviluppato in me una grande libertà di espressione.

 

Ti sei apertamente schierata in favore dell’estensione dei diritti civili, hai patrocinato il Gay Pride e sei una femminista convinta. Anche questo un importante segnale di rottura con il passato di cui essere molto orgogliosa. E anche questo uno spazio vuoto che, nel mondo musicale femminile sardo, sei riuscita a colmare. Come mai in una società che l’immaginario collettivo dipinge come matriarcale, fatta di donne forti e indipendenti sei dovuta arrivare tu per riaffermare un po’ di grrrrl power?

Sì, sono stata diddina (madrina, ndr) del Gay Pride 2014 ad Alghero. Le donne in Sardegna hanno molto peso a livello familiare, mentre a livello culturale e pubblico si incontrano ancora molte difficoltà ad affermarsi e a emergere. Le donne tendono ad essere molto decisioniste e imperative in casa, ma fuori ancora questo non succede molto. Basta vedere il numero di donne che fanno politica attiva. Probabilmente io ho riempito questo vuoto perché c’erano, e ci sono, poche donne che sentivano la necessità di mettersi in discussione. Poi, parliamoci chiaro, prendere posizioni nette e parlare fuori dai denti in questo modo comporta anche tutta una serie di problemi (ride, ndr). Io per essermi schierata apertamente contro il razzismo ho ricevuto minacce sul web, mi è stato augurato che mi venisse svaligiata la casa e di essere stuprata. Anche nella musica questo genere di posizioni ti fanno guadagnare consenso da un lato e te ne fanno perdere dall’altro. Spesso anche molti musicisti preferiscono mantenere un pubblico trasversale evitando di esporsi. Io cerco sempre di mantenermi molto obiettiva, e devo riconoscere che questo ha fatto sì che molti personaggi, anche lontani dalle mie posizioni in alcuni ambiti, possano invece essere poi al mio fianco in altre battaglie. Mi sono in qualche modo costruita una piccola roccaforte di rispetto, grazie anche a una dialettica ironica e non “talebana”, per cui anche chi non la pensa come me rispetta le mie opinioni.

 

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Oltre a queste prese di posizione fortemente politiche, nel senso alto e vero del termine, ti sei spesso espressa a favore di posizioni indipendentiste. Forse mai come ora esponenti della società civile e culturale stanno prendendo posizione su questo tema, senza vergogna e senza timore. Cosa credi stia cambiando?

Riguardo questo argomento, lo rivendico io di essere stata una pioniera (ride, ndr). Quando dicevo queste cose anni fa venivo presa per matta. Scherzi a parte, forse perché ci si sta rendendo lentamente conto che tutto quello che ci ha sorretto fino a questo momento era fasullo. Tutte le argomentazioni che sono sempre state utilizzate per screditare questo modo di pensare, stanno piano piano crollando. Se prima la paura di non poter andare da nessuna parte senza l’Italia troncava ogni confronto, oggi in molti si stanno rendendo conto che l'”Italia” non è altro che un grande carrozzone pieno di problemi che fa acqua da tutte le parti e che, probabilmente, una gestione su scala ridotta del territorio darebbe più respiro ad un’economia congelata. I modelli economici e politici che ci hanno tenuto in piedi fino ad ora si stanno rivelando assolutamente fallimentari e le persone iniziano a vagliare altre possibilità, agevolate in questo anche da prese di posizione forti come quelle emerse in Catalogna o in Scozia. Abbiamo percorso per decenni una strada che non ha portato da nessuna parte, chissà se calpestandone un’altra non si possa arrivare più lontano.

 

Credi che ci sia oggi in Sardegna una classe politica in grado di indicare quella strada?

Purtroppo in Sardegna mancano oggi, soprattutto nel panorama indipendentista, figure e soggetti autorevoli e credibili in grado di accogliere questa necessità di cambiamento. L’ultima scissione in IRS, quando questa iniziava a raccogliere consensi, ha fatto fare un salto indietro di dieci anni alla lotta politica. Oggi pare che le uniche soluzioni siano buttarsi sul “tradizionalismo indipendentista” fatto di vecchi nomi e vecchie istanze, oppure virare sull’intellettualismo da salotto, assolutamente insufficiente a incarnare le reali necessità delle persone. La Sardegna non è solamente l’Isola delle Storie di Gavoi. È quello, certo, ma è anche il mercato di San Benedetto, la fabbrica di Fiumesanto o i capannoni vuoti di Ottana. Ci vorrebbe qualcosa di più radicato e trasversale al tempo stesso, ma che non nasca soltanto nei salotti o soltanto negli ovili.

 

Altra cosa che ti ha contraddistinto è stata la scelta della variante campidanese. Il tuo dialetto. Fino a questo momento si è sempre fatto ampio ricorso al dialetto logudorese, con scantonamenti nella variante nuorese, specie tra le interpreti femminili. Nonostante il pubblico potesse non essere pronto, hai scelto comunque di utilizzarlo nelle tue canzoni. Pensavi fosse un azzardo all’epoca? E con il senno di poi invece?

Ma perché dovrei parlare nuorese (ride, ndr)? Il pubblico non è mai pronto nella misura in cui nessuno si prende la responsabilità di piantare semi di una lingua che si perderà. E che si sta già perdendo purtroppo. Un’opzione è fregartene, come fanno in tanti. Oppure decidi, come me, di imparare il sardo a 23 anni, dopo che i miei genitori hanno sempre parlato in italiano in casa, e di farla diventare la tua lingua principale nella scrittura. Non sono sicuramente un’oltranzista, tant’è che ho scritto in spagnolo, in inglese e qualcosa anche in italiano. Ma canto in sardo anche perché penso che ce ne sia proprio bisogno. Ho scelto di cantare in campidanese e non in logudorese perché credo che oggi sia molto più importante normalizzare questa lingua, in tutte le sue “varianti”, e non per elevarne una a discapito delle altre. Mi piace usare quella che viene parlata in strada, quella che usano i ragazzi, lo slang e non per forza la lingua utilizzata dai poeti. Altrimenti la chiudiamo in un museo e buttiamo la chiave. Così non la si mantiene viva ma la si uccide definitivamente.

 

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Tutte queste tematiche a te in qualche modo care, non potevano non essere fortemente presenti nei tuoi album, smorzate spesso da una buona dose di ironia. Ma quello che forse più connota le tue canzoni è un rifiuto della “lagna”, un’attitudine alla positività e all’ottimismo nei confronti della realtà sarda. Un desiderio di rivalsa ma privo della retorica che ha caratterizzato molta della produzione musicale isolana. Ne abbiamo un disperato bisogno, vero?

Ah sì, lo puoi ben dire (ride, ndr)! C’è un concetto politico legato a questo aspetto, che si chiama rivendicazionismo. è quella trassa, quel modo di fare, tutto sardo per altro, presente tanto nella musica quanto nel resto della società, che consiste nel piagnucolare per tutto quello che ci manca. C’è poca volontà di andarsi a prendere le cose. Sciorinare tutto quello che manca è facile. Altra cosa è rimboccarsi le maniche e andarsele a prendere. La Sardegna, spesso dipinta come un deserto, è invece una terra molto fertile con tanto spazio per fare le cose. Io sono una cantante, vivo e lavoro in Sardegna. Suono molto, insegno canto, studio continuamente e cerco sempre di evolvermi. Se ci sono riuscita io ce la possono fare tante altre persone. Niente è troppo difficile. Io credo che le cose arrivino nella misura in cui una persona si sbatte e si impegna. Con l’approccio del piagnisteo non credo si vada molto lontano.

 

Ma torniamo alla musica. I tuoi album sono caratterizzati da un uso assolutamente libero e svincolato della musica. Blues, country, bolero, rock, gospel, funky, samba e swing sono solamente alcuni dei generi che sei riuscita a infilare nei tuoi pezzi. I testi li scrivi tu mentre le musiche ora vengono scritte a quattro mani con il tuo contrabbassista Matteo Marongiu. Come viene “scelta” – se di scelta si può parlare – la musica da utilizzare per un brano? Abbozzi tu un’idea di canzone insieme al testo o in saletta provate a musicarla altogether e quel che viene viene?

Matteo Marongiu è colui che mi dà l’aiuto più grande nell’arrangiamento dei brani. Poi tutti i musicisti con i quali ho collaborato da quando faccio questo lavoro hanno, chi più chi meno, dato un loro contributo alle versioni finali dei brani. Normalmente io quando scrivo un brano gli do subito una forma testuale e musicale, che successivamente viene rielaborata, definita e arrangiata. Scrivo canzoni da un po’ di anni ormai e riesco a figurarmi un brano nella sua interezza ancora prima di provarlo in sala. Ma normalmente parto sempre da un testo. Di solito c’è sempre qualcosa che sento la necessità di dire (ride, ndr).

 

Dal tuo album d’esordio Aici del 2012 all’ultimo Momoti, uscito nel 2015, passando per A giru a giru, sei cresciuta tanto, insieme, inevitabilmente, al livello di musiche e testi dei tuoi brani. Cos’è successo in questi anni?

È successo di tutto, ma soprattutto ho studiato tanto. Io parto sempre dal presupposto che sono molto scarsa. Mi sento in costante evoluzione e ho bisogno di stimoli, input e studio continuo. Li trovo nei viaggi, nelle letture, nei confronti e negli incontri di ogni giorno. Ora frequento il secondo anno di Conservatorio e più studio la musica e più mi rendo conto di avere ancora tantissimo da imparare. Mi sento un’eterna studente e spero di non perdere mai questa consapevolezza. Studi molto approfonditi a livello teorico e tecnico su come funziona la musica mi hanno dato una marea di soluzioni che prima non conoscevo. Sicuramente un grande passo in avanti in questo senso si avvertirà nel nuovo disco. Studiare musica è una cosa che consiglio a qualsiasi musicista. È una figata!

 

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Quindi stai già lavorando su qualcosa di nuovo? Come fai a non fermarti mai?

Siiii (ride, ndr)! Credo di avere almeno due dischi in coda e un’altra operazione in ballo. Sono un po’ una Stachanov. Sono ormai al quarto disco in cinque anni. Tutti i miei lavori sono stati autoprodotti, pubblicati grazie a investimenti personali. Sono molto orgogliosa di essere sempre rientrata nelle spese e di essere riuscita sempre a reinvestire i miei guadagni dalla musica, in videoclip o in piccole operazioni di marketing e comunicazione. Rimango in continua produzione anche perché più produco più trovo gli stimoli giusti per continuare a farlo. Ho dovuto lavorare tanto per arrivare a questo punto e per poter lavorare in totale autonomia e svincolata da agenzie, SIAE e altri mezzi tradizionali di promozione. Sono stata sempre molto presente sui social e ho mantenuto vivi i contatti con le persone. Non vengo “piazzata” da qualcuno ma sono le persone stesse a cercarmi per le mie esibizioni.

 

Tra le tue tante collaborazioni ci piace ricordare quella con Joe Perrino, il quale ha cantato nella tua Burdu Bu, tratta dal tuo primo album solista Aici, dove sei riuscita a farlo cantare per la prima volta, nella sua lunghissima carriera, in campidanese. Com’è stato lavorare con il rocker sardo per antonomasia?

In realtà Nico (Joe Perrino, ndr) è stato molto più naturale e sciolto di quanto si possa credere. Credo che ci sia proprio tagliato per cantare in casteddaio e un po’ mi dispiace pure che non abbia portato avanti questa cosa, perché lui si è divertito tanto in questa veste. Entrambi ci siamo divertiti come due bambini. Un’esperienza che mi ha arricchito molto e che spero di ripetere, magari già nel prossimo disco.

 

Ora sei impegnata, oltre alla promozione di Momoti, anche in un’intensa attività live con diversi progetti dedicati al jazz. Ma sei anche stata fuori dall’isola, suonando a Bruxelles e a Barcellona. Com’è andata?

Il mio debutto cantando jazz è stato di recente al Vinvoglio di Cagliari, che era strapieno e ne sono stata felicissima. Ma anche fuori dall’isola è andata davvero benissimo. E mi dà lo spunto per tornare a polemizzare con chi crede che cantare in sardo sia limitante. Perché non è assolutamente vero. Sono limiti tutti nostri. In Catalogna, in modo particolare, hanno una visione molto più open dal punto di vista identitario. Erano proprio contenti che io cantassi in sardo. A Bruxelles invece ho suonato nell’Osteria Toscana, una locanda a gestione familiare che organizza spesso esibizioni di musicisti italiani. Anche li è stato tutto un divertimento. Come lo è stato in Giappone, come si vede chiaramente nel video di Oi mi Scidu Chitzi, girato a Osaka e uscito proprio questi giorni scorsi, che riprende lo slang campidanese come se fosse giapponese.

 

 

Che cosa riservi invece ai tuoi fan per il futuro prossimo?

Ho qualche collaborazione in ballo che ancora non posso svelare. Ho scritto la colonna sonora della campagna #FacciamociSentire della sportiva sorda Sara Gerini, per la sensibilizzazione sui problemi dei non udenti, che uscirà a brevissimo e di cui verrà pubblicato anche un videoclip. La canzone è stata composta in modo che, soprattutto a livello di ritmiche, anche le persone non udenti potranno percepirne le vibrazioni.

Poi c’è il nuovo disco, che spero di chiudere quanto prima, sicuramente entro quest’anno, di cui vi posso anticipare solamente che sarà composto di canzoni sulla scia di Baccagai, socialmente impegnate ma, come sempre, tra il serio e il faceto. Ci saranno dentro un paio di bordate importanti e politicamente scorrette verso quelle cose che proprio non ci piacciono (ride, ndr).

 

Una curiosità personale. Sulla tua fanpage ho intuito che insegni musica ai ragazzi delle scuole? Ma quanto ti diverti con loro?

Sì, io insegno a Sanluri, Cagliari e Mandas in questo momento. Ed è uno spasso continuo, oltre che a servirmi per rimanere sempre aggiornata, per studiare e per imparare dalle persone. Durante i cinque anni di insegnamento, ogni persona che ho incontrato mi ha dato qualcosa. Insegnare canto implica una forte fiducia reciproca e si creano sempre dei rapporti importanti, in alcuni casi molto stretti che diventano amicizie forti. È una cosa che fa decisamente bene al cuore.

 

Poi avrei una curiosità sul progetto Bentesoi. Mi era piaciuto tanto quando era uscito e anche riascoltandolo l’ho trovato sempre molto interessante e attuale. Avete intenzione di riportarlo in vita, magari con altre forme?

A me era piaciuto davvero tanto. Come mi piacerebbe molto provare a riproporlo. Colgo l’occasione per lanciare la palla a Frantziscu (Francesco “Arrogalla” Medda, ndr) e riproporgli questa collaborazione, che ai tempi aveva entusiasmato tanto anche noi e che io mi porto sempre nel cuore.

 

Infine ti chiedo di fare i tuoi saluti a Brincamus, e in particolare al nostro presidente Giancarlo Palermo, che ti attende trepidante per un altro featuring. Ti anticipo che per il prossimo video si pensava a qualcosa degli Slayer…

Ahahah (ride, ndr). Il video del pogo in auto credo che resterà negli annali. Una delle cose più divertenti che mi siano capitate. Conosco Giancarlo Palermo da tanti anni e devo confessarti che lo amo molto. I miei saluti vanno sicuramente a lui ma anche a tutti voi di Brincamus, che fate un lavoro stupendo.

Grazie Claudia, è stato un piacere!

Anche per me. Grazie a voi!

 

A cura di Simone La Croce

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Claudia Aru, la vocalist con una missione sociale
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