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Alberto Sanna fa musica da oltre 40 anni. Ha fatto parte di un numero imprecisato di band e preso parte a innumerevoli progetti musicali e, pur restando fondamentalmente un tradizionalista del rock, ben saldo alle sue radici, è riuscito a ricavarsi brillantemente degli spazi in tanti esperimenti solo apparentemente distanti dalla sua immagine di rocker old style. Dopo tanti anni porta ancora in giro il verbo, riproponendo storie e suoni che hanno segnato il corso della musica, macinando una quantità incredibile di date ogni anno.

Da qualche tempo ha riscoperto la sua vocazione di busker, già intrapresa in passato durante gli anni ’80. Si sposta con il suo furgone, monta la sua attrezzatura da one man band ed è capace di suonare per ore, imbastendo dei veri e propri live set che poco hanno da invidiare a quelli dei gruppi tradizionali.

Oltre ad una carriera solista e in band con repertorio originale, ha sempre portato sui palchi e per le strade la musica e le storie che gli hanno segnato la vita, riproponendole con un piglio personale, mettendoci dentro sempre qualcosa di profondamente suo, ma soprattutto senza smettere mai di provare un piacere vero in quello che fa e mettendoci, di conseguenza, una passione sincera che traspare palesemente dalle sue esibizioni.

Volevamo capire come fa a fare tutto questo e, perciò, lo abbiamo incontrato e ci abbiamo scambiato qualche parola. Buona lettura.

 

Ciao Alberto, iniziamo tra il serio e il faceto: come fai a reggere la quantità di concerti che fai tutto l’anno? Roba che neanche i Ramones ai tempi d’oro… Ma soprattutto, cosa ne pensa la tua famiglia?!?

Beh, il trucco è semplice: ho smesso di drogarmi! Per quanto riguarda la famiglia, sono molto one man band!

 

La tua modalità di presentarti al pubblico come One Man Band da quali altri musicisti trae ispirazione?

È una lunga storia. Provo a riassumerla. Il mio primo vero strumento è stato la batteria a 13 anni, se si esclude l’armonica che suono fin da bambino. Quindi pura coordinazione fisica: due braccia e due gambe che fanno 4 cose diverse tra loro, ma in funzione di un unico risultato finale. Solo molto più tardi sono arrivate note, accordi e melodie, ma all’inizio per me la musica era incastro ritmico, sdoppiamento del cervello e coordinazione.

Uno dei miei maestri, nei primi anni ’70, faceva blues e rock’n’roll con voce, armonica, chitarra acustica e un tamburo a pedale, che suonava stando in piedi e utilizzando il tallone del piede destro. Era Edoardo Bennato. Così, per emulazione mi sono ritrovato a provarci anch’io. Ho cominciato negli anni ’90 con la grancassa della mia vecchia batteria messa al contrario per poter stare in piedi come Edoardo, ma presto ho sentito l’esigenza di aggiungere un charleston da manovrare con l’altro piede. Per qualche anno sono andato avanti così, esibendomi da solo con voce, chitarra, armonica, cassa e charlie. Poi ho dovuto smettere, in seguito a un serio infortunio sportivo, e solo dopo 15 anni, circa 6 anni fa, ho ripreso aggiungendo il rullante.

 

Quanto ci hai messo ad acquisire dimestichezza con la batteria a pedali? E in che cosa credi di differenziarti da tuoi colleghi che propongono live analoghi ai tuoi?

Per semplificare potrei dire che da tre anni a questa parte mi sento finalmente padrone del mio set, ma in realtà è un continuo divenire e affrontare nuove scommesse, come in fondo è sempre la musica. A questo punto credo di poter affermare che, limitatamente a ciò che riguarda l’uso delle percussioni a pedale, l’allievo ha abbondantemente superato il maestro. Il mio approccio alla batteria suonata con i piedi è molto lontano sia dai classici one man band itineranti, che controllano le percussioni con dei cavi legati a caviglie e gomiti, e per suonare devono camminare, sia dai moderni blues man, che usano cassa e charlie da seduti. Io uso un mio modo, totalmente originale, per il quale ho progettato e costruito da me i pedali con cui suono e credo non esista niente di simile al mondo. O perlomeno io non l’ho mai trovato!

 

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Live in “Camminando sul lato selvaggio”, con Giuseppe Boy

 

Hai attraversato oltre trent’anni di musica senza mai fermarti. Come ti sei adeguato, con il passare del tempo, al cambiamento delle tendenze e delle mode musicali?

Non è mai stato veramente un mio problema. All’inizio il mio obiettivo era combattere le tendenze e le mode, contraddirle, smontarle. Poi, progressivamente, ho cominciato a darci sempre meno peso, fino a ignorarle del tutto. Non è davvero importante che ciò che faccio sia in sintonia o meno con le mode. È molto più importante che lo sia con la mia anima.

 

Negli ultimi anni ti sei cimentato in alcuni esperimenti che hanno visto entrare, a diversi livelli, il teatro nel tuo mondo musicale. E viceversa. Penso a Londra Brucia! I Clash, il Punk e altre storie senza futuro, realizzato con Giacomo Casti e Maurizio “Palitrottu” Pretta, Camminando Sul Lato Selvaggio, sulla vita di Lou Reed e i Velvet Underground, con Giuseppe Boy, e Canale 16, la storia della Moby Prince, spettacolo teatrale di Gianluca Medas. Che rapporto ha, un rocker come te, con il teatro?

Potrebbero sembrare delle cose nuove e estranee al mio mondo, ma anche le cose nuove non lo sono mai del tutto. Anche il teatro è un modo per raccontare storie, proprio come la forma canzone che prediligo io. Nella mia carriera ho avuto a che fare molte volte con il teatro e il cinema. Sono mondi paralleli che mi affascinano e mi arricchiscono tanto: mi danno la possibilità di avere un approccio differente con il palco e il pubblico, di vedere le cose da un’altra prospettiva, scoprendo aspetti nuovi dell’espressione artistica. Ogni volta ritorno al mio mondo di canzoni con una marcia in più. In questi spettacoli il mio ruolo è sempre molto legato alla musica, in tutti canto e suono parecchio.

 

Uno di questi spettacoli che hai recentemente annunciato di ripresentare è appunto Camminando Sul Lato Selvaggio, un reading/concerto su Lou Reed e i Velvet Underground, concepito e realizzato con il tuo amico attore Giuseppe Boy. Che ci dici a proposito? E soprattutto, quando pensate di fare le prime date?

Con Giuseppe Boy ci conosciamo da sempre. Siamo coetanei e concittadini. Cagliaritani old school. Io sono un fan dei suoi spettacoli e delle sue poesie, e lui è un tifoso dei miei concerti e delle mie canzoni. Le nostre vicende artistiche si sono già incrociate varie volte e, oltre questo, ci unisce una certa sintonia, umana e artistica, e la curiosità che ognuno dei due nutre per il campo d’azione dell’altro. A me è sempre piaciuto recitare e Giuseppe ama cantare e suonare, per cui, quando collaboriamo, siamo entrambi determinati a sovvertire i nostri ruoli di default. Il risultato è una dimensione molto appagante, e non solo per noi, a giudicare dalle reazioni del pubblico. Negli ultimi anni spesso abbiamo ipotizzato di fare ancora qualcosa insieme, finché ha rispolverato una sua vecchia idea di provare a far convivere il rock malato di Sweet Jane di Lou Reed con il lirismo della più nobile poesia italiana, rappresentato da A Silvia di Giacomo Leopardi. Non capivo bene cosa gli frullasse in testa, ma sentivo che doveva essere qualcosa di buono. Quando, qualche anno fa, quelli di Marina Café Noir mi chiesero di raccontare Lou Reed nel loro festival, per me fu spontaneo coinvolgere Giuseppe e ripartire dalla nostra Sweet/Silvia per costruire quello che poi sarebbe diventato Camminando Sul Lato Selvaggio. La prima fu molto apprezzata. L’energia positiva trasmessa al pubblico ci ritornò indietro e fu qualcosa di fisicamente palpabile. Poi però ognuno è stato riassorbito dai propri impegni e progetti e le nostre vite hanno provato a scappare via in direzioni diverse. Ora abbiamo ripreso in mano lo spettacolo e stiamo lavorando sodo per ri-esordire il 9 febbraio a Cagliari al Jazzino.

 

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Live in “Londra Brucia: i Clash, il Punk e altre storie senza futuro”, con Giacomo Casti e Maurizio “Palitrottu” Pretta

 

Ti stai occupando anche della parte musicale in live dello spettacolo di Gianluca Medas, Canale 16, la storia della Moby Prince, cantando alcune tue canzoni, tra le quali proprio Moby Prince. Che cosa ti lega a quell’evento tragico, tanto da averti fatto scrivere una canzone a riguardo?

Il lavoro trova spazio all’interno di un più ampio progetto teatrale di Gianluca Medas, Story Telling, che prevede più spettacoli su importanti fatti di cronaca che hanno coinvolto la Sardegna. Sono stato contattato dal regista per occuparmi delle musiche di scena, con totale libertà di scegliere ciò che ritenevo adatto. Ho pensato di usare le canzoni che, oltre a essere il mio pane quotidiano, trovo siano una forma musicale che può adempiere alla funzione di raccontare. Inizialmente ho provato a cercare materiale già esistente che potesse essere d’aiuto alla narrazione di quello che viene considerato il più grande incidente marittimo irrisolto del dopoguerra, e che riguarda direttamente la Sardegna, essendo stata la Moby Prince una nave traghetto in servizio di linea tra Livorno e Olbia. Mano a mano che entravo in questa terribile storia, ho sentito la necessità di scrivere del materiale ad hoc, una dinamica per me inedita. Ho sempre scritto delle storie che vivo e non di episodi esterni a me. L’ho fatto sulla base delle emozioni che mi ha suscitato entrare nei fatti, nei filmati, nelle interviste e nelle ricostruzioni di questa storia. È stato illuminante sperimentare un nuovo approccio alla forma canzone, sono soddisfatto del risultato del lavoro e sono molto contento di avere dato un piccolo contributo per non dimenticare questa vicenda che ha portato via la vita a 140 persone innocenti e ha cambiato per sempre quelle di chi ancora aspetta la verità e lotta perché venga fuori.

 

Attualmente sei anche uscito dai tuoi soliti canali musicali, sperimentando la commistione tra rock e hip hop, in collaborazione con il blues rapper Donato Cherchi, in arte Donnie, con il quale ha scritto alcuni nuovi pezzi a quattro mani. Che esperienza è stata e a cosa porterà?

Ho conosciuto Donnie che già scriveva le sue storie rappando su basi blues. Faceva hip hop senza tante forzature di immagine e di lessico, senza il capellino NYC, senza Yo Yo, senza catenacci al collo come nei telefilm. Insomma, lo faceva senza scimmiottare realtà improbabili, con l’esigenza semmai di raccontare la sua. Mi ha colpito la sua urgenza di essere se stesso. Mi è sembrato da subito che esistesse un ponte tra me e lui, e gli ho chiesto se aveva voglia di provare a percorrerlo. Così abbiamo scelto due argomenti e abbiamo scritto assieme due pezzi ibridi. Con la mia strumentazione da one man band ho registrato le basi musicali dei brani, Donato ci ha rappato sopra le sue storie e io ho cantato le mie. Spero che presto possiamo trovare il tempo di dare un seguito alla nostra collaborazione e magari di trasferirla su un palco.

 

Non ti manca certo il materiale su cui lavorare. Ma conoscendoti immagino che le tue aree di interesse non si limitino a questo. Hai progetti per il futuro prossimo?

Sento l’esigenza di pubblicare nuovo materiale, ho un bel po’ di brani nuovi pronti e ne sto scrivendo altri. Anche nei nuovi lavori vorrei mantenere la mia dimensione di one man band, molto live, anche se questo non vieta eventuali ospiti e collaborazioni. Nutro ancora qualche dubbio sul formato e sulla distribuzione che dovrei adottare una volta che il nuovo materiale sarà pronto. Il CD è definitivamente morto? Il download sulle piattaforme digitali funziona realmente? Poi c’è anche l’opzione videoclip, all’inseguimento dei likes e delle visualizzazioni. In questo momento storico mi consola molto la risurrezione del vinile, ma per tutto il resto c’è ancora tempo. Staremo a vedere.

 

Ti andrebbe di fare un saluto ai ragazzi dell’Associazione?

Sentendomi in prima persona uno dei “ragazzi dell’Associazione”, in qualità di socio, ci saluto volentieri e ci auguro buon lavoro per questo 2017. Che sia ricco di musica e di “salti” del Tirreno!

 

A cura di Simone La Croce

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Alberto Sanna, instancabile paladino del Rock’n’roll