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Rappresentanti di primo livello di una sottocultura che durante la seconda metà degli anni ’90 ha conquistato indistintamente città e piccoli centri, i Balentia si sono resi protagonisti di uno sdoganamento che difficilmente ha trovato lo stesso riscontro in altri generi musicali. Hanno portato l’hip hop sardo fuori dai confini dell’isola e l’hanno fatto conoscere in tutta Italia e in Europa. Senza alcun timore reverenziale, per le loro rime hanno quasi esclusivamente utilizzato il sardo – campidanese dell’Alta Marmilla, per la precisione – guadagnandosi il rispetto e l’approvazione della critica e di tanti loro colleghi d’oltre mare, a prescindere dal fatto che loro facessero, o meno, altrettanto. Perché, come ci ha spiegato Alessio Mura in questa intervista, “il rap è comunicazione“. Non importa in che lingua canti. Se hai un messaggio da trasmettere e riesci a farlo bene, quello arriva sempre.

Reduci dall’esperienza straordinaria delle Mogoro Posse, il duo formato da Alessio Mura (Su Maistu), appunto, e dal fratello Andrea Mura (Lepa), affiancati da Andrea Planu (Dj Zep) e da Carlo Gosamo (Wild), hanno dato una spinta molto importante a tutto il fermento di quegli anni, che vedeva, oltre loro, nomi del calibro di Menhir, SR RazaDr. Drer & CRC posseDJ Gruff e Rigantanti. Fermento fatto di tanta contaminazione, sperimentazione ma soprattutto collaborazione, networking, vero e dettato da necessità oggettive, che alla lunga ha dato i suoi frutti, non ultimo il successo di Salmo e della sua crew.

Abbiamo raggiunto Alessio al telefono e durante una bella conversazione ha espresso molto chiaramente il suo pensiero su questa bella storia, sull’uso del sardo, sulla comunicazione insita nel rap, oltre a raccontarci qualcosa sul suo avvenire e su quello dei Balentia.

 

Siete i capostipite di una generazione di rappers che dalla seconda metà degli anni ’90 ha rappresentato una delle eccellenze del panorama musicale sardo. Per i non addetti ai lavori quel periodo sfavillante sembra essersi in qualche modo placato. Voi siete comunque rimasti all’interno della “scena”. Qual è lo stato di salute dell’hip hop in Sardegna oggi?

Credo che lo stato attuale sia abbastanza in linea con la situazione italiana. Ci sono tanti ragazzi che fanno hip hop, tanti artisti che riescono a emergere sempre, come hai detto tu, con ottime eccellenze. Parlo, ad esempio, di Salmo, che rimane comunque un prodotto della cultura sarda, arricchito tra l’altro da un background hardcore del periodo a cavallo tra anni ’90 e Duemila. Salmo è probabilmente il punto massimo di questa scena, non solo a livello regionale ma anche a livello italiano e oltre.

Alcune delle nuove leve fanno cose molto interessanti. Altre meno, ma come in tutte le scene. Sono rimaste in attività anche le “vecchie” realtà, personaggi come i Menhir, o Quilo – che di recente ha tirato su SR Raza per una one-shot – Dr. Drer & CRC posse, i Rigantanti. Tante belle realtà sparse per l’isola che tengono alta la bandiera dell’hip hop sardo riuscendo pure ad esportarlo.

Ci sono cose che mi piacciono di più e cose che mi piacciono meno. Preferisco sempre l’originalità, chi porta qualcosa di nuovo, di fresco, chi utilizza il sardo. Ma complessivamente ritengo che lo stato di salute dell’hip hop in Sardegna sia assolutamente buono.

 

Che cosa è cambiato rispetto a quegli anni, se qualcosa è cambiato?

È cambiato tutto. È cambiato il mondo. Fare musica oggi è completamente diverso rispetto agli anni ’90, sia dal punto di vista tecnico, ma anche relativamente alla diffusione, alla promozione e alla commercializzazione. In quegli anni internet non esisteva. Portavamo in giro le nostre cassette o le spedivamo via posta. Lo stesso facevamo con quelle che ricevevamo. Tutto era molto più DIY (Do It Yourself, ndr). Oggi tutto questo è molto facilitato. È un bene per certi versi, ma un male per altri. Le fasi di autoproduzione e autodistribuzione tipiche degli anni ’90 facevano in modo che  dovevi sbatterti molto di più se volevi far arrivare le tue cose dove volevi. La tecnologia ha dato voce a molti più artisti e nei grandi numeri la qualità può anche scadere. È altrettanto vero che un Salmo, che viene da quel mondo, è stato abile nel capitalizzare quell’esperienza e traghettarla con successo fino ai nostri giorni, sfruttando tutti i canali, specialmente quelli video. Ripeto, è cambiato il mondo. Poi, fortunatamente, si fanno sempre i concerti, si fanno sempre le jam, ci si incontra. Ma tutto è molto più veicolato grazie a media e social. Tutto è molto più “cotto e mangiato“.

 

Il rap si è prestato un po’ ovunque ci fosse una scena ben radicata sul territorio e legata alle “sottoculture” in genere, all’utilizzo di linguaggi che non fossero l’italiano. Penso a contesti come quello napoletano o romano. Anche voi avete fin dagli esordi fatto ricorso al sardo per le vostre canzoni, senza per questo perdere appeal o non incontrare il favore di pubblico e critica, anche e soprattutto a livello nazionale. È un tema questo che mi capita spesso di affrontare con i musicisti. Quali sono, posto che ce ne siano, i limiti all’utilizzo della lingua sarda nella musica contemporanea?

Per noi non ha mai rappresentato un limite. Con i Balentia siamo sempre riusciti ad andare in giro, anche per l’Europa, con i nostri brani in sardo, ovvero il 90% della nostra produzione. Non siamo sicuramente noi gli artefici di questo approccio. Ci sono tanti personaggi che hanno fatto dell’uso della propria lingua un cavallo di battaglia, come ad esempio i Sud Sound System, che probabilmente da questo punto di vista rappresentano l’esempio più eclatante. Dipende sicuramente tanto anche da quello che proponi. Se prende e fa breccia nelle persone, è più semplice proporla anche in lingue che non sono quelle di chi ascolta. Ascoltiamo tantissima musica cantata in inglese, della quale l’ascoltatore medio capisce forse il 3%, a meno che non vada a leggersi i testi. Questi brani entrano comunque in classifica e hanno grande successo. Se vuoi sfondare in un certo modo nel mercato italiano è chiaro che devi ricorrere anche a quella lingua, diversamente ti sono precluse molte porte. Il nostro obiettivo sin dall’inizio non era quello. Era piuttosto divertirci e portare in giro grazie al rap la nostra cultura e la nostra lingua, il sardo. Non siamo riusciti ad entrare in classifica, ma quello non è mai stato un problema (ridiamo, ndr).

 

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Il rap è, per ovvie ragioni, molto legato alla parola e alla lingua. In particolare tra lingue autoctone, slang, dialetti e musica rap, c’è sempre stato un feeling florido molto più che in altri generi musicali. Se non rappresenta un limite per chi lo fa, potrebbe rappresentarlo per chi lo ascolta, non trovi?

Molti mi dicono che capiscono poco durante i nostri concerti. Ma se proprio non capisci le parole puoi sempre sentire il funk. Poi sta anche alla curiosità e all’intelligenza di ciascuno: puoi andare a un concerto solo per ballare, ma se vuoi approfondire, quando rientri a casa cerchi i testi e leggi cosa diciamo. Spesso, su richiesta, li ho inviati appositamente, con traduzioni annesse. Dipende molto dalla sensibilità di ognuno. Recentemente, durante un concerto in uno jazz club, ho fatto molto freestyle, sia in sardo sia in italiano, il pubblico riusciva a capire gran parte di quello che cantavo e ha apprezzato tantissimo. La nostra lingua non è un limite ma può aiutare a caratterizzarci e a farci essere quello che siamo, sardi nel mondo.

 

Con il progetto ForeFingers Up! avete anche partecipato, nel 2014 a Udine, al Suns, festival musicale di rilievo europeo dedicato alle lingue minoritarie. Potervi confrontare con altre band che utilizzano lingue “autoctone” ha confermato le vostre idee e i vostri propositi a riguardo?

Assolutamente sì. Abbiamo avuto a che fare con musicisti che, utilizzando la propria lingua, vendevano pacchi di dischi e andavano in classifica. Non solo nel proprio territorio. Il SUNS è una vetrina incredibile. Quando siamo andati lì suonavamo da meno di un anno ma siamo stati comunque apprezzati perché abbiamo trasmesso tanta energia sul palco. Ha confermato quello che sospettavamo. È un bene che esistano manifestazioni come il SUNS o il Liet (Liet International, manifestazione musicale europea dedicata alle lingue minoritarie, ndr). Il nostro patrimonio culturale, e linguistico in particolare, va tutelato, tenuto in vita e trasmesso a quanta più gente possibile.

 

Avete iniziato a produrre nel ’95 e in ormai più di vent’anni, oltre a comparire in una grande quantità di compilation, avete dato alle stampe unicamente 3 album: Nos’e tottu nel 2003, Bisensi Disi nel 2007 e Vidas & Rimas nel 2012, e l’EP su vinile Sa Lei/Cantu balit su fueddu. Una produzione centellinata, che non risponde certo ai desiderata di un mercato sempre più frenetico ed esigente. il risultato è sempre stato però una grande cura di suoni, testi e particolari in generale. Lavorare con lentezza paga alla fine dei conti? Quanto meno artisticamente…

(Ride, ndr) Su questo, sinceramente, non saprei. Hai ragione nel dire che nei nostri dischi c’è stata una lavorazione molto particolareggiata, un’attenta cura dei dettagli. Il problema non è fare un disco all’anno. Se la tua musica non entra in classifica non è per il ritmo a cui sforni album. Credo sia più una questione di comunicazione. Se io impiego 5 anni a fare un disco e dentro ci finiscono brani scritti 3-4 anni prima, quelle cose possono non essere più valide. Il rap deve essere fresco. E soprattutto deve essere la trasmissione di un messaggio, comunicazione prima di tutto. A me piace scrivere oggi, incidere domani e pubblicare dopodomani. Solo così riesco a dare un’immagine attuale di quello che voglio comunicare. Qualche anno per il trasferimento di un contenuto non è un tempo accettabile, specie per i messaggi dei quali il rap si vuole fare portatore. Lavorare con lentezza ci sta. Ma c’è lentezza e lentezza… (ridiamo, ndr)

Il tempo che ci siamo presi nella produzione dei nostri lavori è stato dettato più dalle circostanze che da esigenze artistiche. Con il senno di poi forse avremmo dovuto agire diversamente. A fare il mio disco solista ci ho messo 8 mesi. A mio avviso è comunque un disco fresco, comunicativo, preciso e che ha trasmesso quello che volevo comunicare in tempi per me più consoni.

 

A proposito. Dicci qualcosa di più del tuo primo e unico per il momento album solista.

Il disco si chiama Coranta ed è uscito due anni fa, ormai. È un po’ una summa di tutti questi anni di rap. Dentro c’è un po’ di tutto: la vita, il lavoro, la famiglia, gli affetti. È un regalo che ho deciso di fare a me stesso per aver compiuto 40 anni, una mia fotografia in un determinato periodo della mia vita. Dentro ci sono tanti amici produttori, come Francesco Lai, Michele Ibba, Riccardo Lisci, Rogga, Andrea Aru, e ospiti del calibro di mio fratello Andrea Mura, Alessandro Sanna (Quilo), Giorgio Scanu (Giorgigheddu), Giuseppe Littera (Mraxai), Alessandro Pintus (Alex P) e dj Sputo. È stata una grande soddisfazione riuscire a farlo uscire il giorno del mio compleanno, quindi dandoci dei tempi e dei ritmi precisi che siamo riusciti a rispettare. È un disco di rap “alla vecchia maniera”, a differenza dei lavori dei Balentia, per certi versi più sperimentali. Ho ricevuto ottimi feedback, è piaciuto a tanti ascoltatori ma, soprattutto, è piaciuto un sacco anche a me, quindi va bene così (ridiamo, ndr).

 

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A proposito, i vostri album sono tutti usciti a distanza di 4-5 anni l’uno dall’altro e l’ultimo, Vidas & rimas, è uscito nel 2012. Direi che ci siamo. State lavorando a qualcosa di nuovo?

Come Balentia siamo momentaneamente in stand by. Sia io che mio fratello abbiamo poche occasioni di incontrarci in questo periodo. In realtà avremmo anche un po’ di testi su cui lavorare ma entrambi siamo molto presi da famiglia e lavoro in questo momento. Ci auspichiamo di fare comunque una rentrée appena possibile. Nel frattempo io mi sto comunque dedicando ad altre cose, come il progetto dei ForeFingers Up! o il progetto di jazz-rap Doodazz, al momento in cantiere, una sorta di jazzmatazz in salsa sarda. Continuo a scrivere abbastanza di frequente e ogni qualvolta ho del materiale cerco sempre di riversarlo in qualche progetto.

 

Non avete mai rinunciato a inserire nei vostri pezzi anche contenuti politici, nel senso alto e vero del termine. Avete sempre fatto riferimenti ai problemi dell’Isola, al disagio sociale e a quello economico, alla mancanza di lavoro e alla indifferenza della classe dirigente. Credete sempre nelle potenzialità della musica come veicolo di comunicazione di istanze sociali?

Certamente. Diversamente non faremmo quello che facciamo. Se veicolata nella giusta maniera, credo che la musica possa farsi portatrice di messaggi, prescindendo anche dal loro contenuto. Ho sempre pensato alla mia musica come rap sociale, in grado di fare una fotografia di quello che mi circondava. Nel tempo ho capito che va bene fotografare ma occorre anche dare delle risposte. Evidenziare solamente i problemi è necessario ma non sufficiente. Ci abbiamo provato, passando con il tempo allo story-telling. Il rap offre un’infinità di modi di raccontare le cose e farlo in maniera più raffinata consente una comunicazione diversa, di qualità. La musica può sempre essere un canale di contenuti politici e sociali e le risposte ai problemi possono anche essere dentro una canzone. Ma è bene che siano presenti anche nella vita di tutti i giorni, perché, alla fine, è come ti comporti nel quotidiano che fa di te un essere politico e sociale.

 

Avete partecipato a diverse edizioni del Brinca, il festival che ha in qualche modo contribuito a far nascere la nostra associazione. E ci piace sempre sentire i racconti delle impressioni dalle parole dei protagonisti di quegli eventi. Che esperienza è stata per voi?

Ho ricordi assolutamente positivi di quei festival. Ricordo i grandi sbattimenti di chi all’epoca si è fatto in quattro per quelle giornate. Giancarlo Palermo, Sofia con tutto lo staff di Brinca, hanno messo anima, cuore e, ahimè, forse anche soldi in quelle manifestazioni. Un lavoro enorme e pionieristico per quegli anni. Un contributo alla diffusione della musica made in Sardinia fuori dall’isola. Una cosa a cui tanti avevano pensato, spesso in maniera egoistica, ma che loro hanno concretizzato in modo molto costruttivo. È anche grazie a loro se siamo andati a suonare per l’Europa. Non possiamo che ringraziarli per quello che hanno fatto all’epoca, quando ancora non esisteva l’Associazione Brincamus, e per quello che continuate a fare ora. Un lavoro di diffusione della nostra cultura difficilmente quantificabile di cui sarò sempre grato, a Giancarlo in special modo.

 

Riferirò. Grazie Alessio.

Dai, ci dd’eusu fatta. Ancora grazie a voi.

 

 

A cura di Simone La Croce

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I Balentia, quando rap è comunicazione
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