tazenda

I Tazenda sono con buona probabilità la realtà musicale sarda che ha avuto maggiore riscontro di pubblico e di visibilità nazionale, e internazionale, degli ultimi decenni. E probabilmente di sempre. Un gruppo che non necessita di troppi preamboli. È stata una delle prima band che ha cercato di fondere il pop-rock di respiro internazionale con quella, che di lì a poco, grazie al provvidenziale intervento di Peter Gabriel, verrà battezzata world musicIl duo composto da Gigi Camedda e Gino Marielli ha attraversato indenne tutte le tempeste affrontate dal gruppo ma anche tutte le più grandi soddisfazioni. A loro va senza dubbio riconosciuto il merito di aver traghettato il progetto Tazenda negli ultimi 30 anni, di averlo accompagnato attraverso i tanti, difficili e dolorosi, cambi di vocalist, e di essersi saputi, ogni volta reinventare per proporre sempre qualcosa che fosse all’altezza delle aspettative e riconquistare il consenso del pubblico. 

Insieme a Gino Marielli, chitarrista e compositore della band sin dagli inizi, abbiamo ripercorso gli esordi e i momenti più importanti della loro carriera. Ci siamo fatti raccontare la sua visione della loro storia, della loro musica e ci siamo tolti qualche curiosità. Fortunatamente, per noi ma soprattutto per voi, non sono mancate le sorprese, gli aneddoti e le rivelazioni che ci aspettavamo. Non ci resta che augurarvi buona lettura.

 

Tra qualche anno festeggerete i 30 anni di carriera. 30 anni segnati da eventi importanti, tanti cambi di rotta e grandi successi. Una strada non sempre in discesa ma che di fatto non si è arenata mai veramente. Credete ci sia qualcosa in particolare che ha tenuto insieme il progetto e lo ha alimentato fino a questo momento?

Ci sono due risposte. La prima stupida, ma forse con un fondo di intelligenza. Non sappiamo fare altro. Credo sia quindi questo che dovremmo continuare a fare. La seconda è che in realtà io e Gigi siamo insieme da prima della nascita dei Tazenda, siamo amici e abbiamo attraversato insieme tutte le tempeste che una band può attraversare. Insieme abbiamo trovato la forza e la voglia di affrontare tutti i cambiamenti artistici e discografici che sono occorsi in questi 30 anni. Cerchiamo di mantenere sempre un atteggiamento anche giocoso e di rimanere un po’ bambini. Questo ci fa avere ancora la voglia di migliorarci di scoprire nuova musica, nuovi dischi e nuovi artisti. Nuove cose che ci danno quella linfa vitale fondamentale per stare insieme. Credo siano queste le cose che naturalmente hanno portato avanti il progetto fino ad oggi e che ci tengono insieme.

 

Avete anche condiviso, quindi, una visione comune della musica e dell’approccio alla scrittura? 

Abbiamo condiviso, sin dagli inizi, la passione per la produzione delle canzoni in senso stretto. Non una musica astratta basata solamente sullo studio e distante dalla realtà. Abbiamo sempre visto le canzoni come piccole sculture, forme primitive di arte laica, con una loro personalità e la capacità di resistere al tempo quando sono buone. Abbiamo un repertorio che va già oltre i cento brani originali. È come avere una mostra, una sorta di museo nel quale ci riconosciamo e che definisce la nostra identità. Questa, con il senno di poi, è stata probabilmente l’idea iniziale. Forse non lo sapevamo ancora, ma credo sia stato questo a spingerci a fare quello che abbiamo fatto negli ultimi 30 anni.

 

Siete stati uno dei primi gruppi in Sardegna, e forse anche in Italia, ad aver cercato di coniugare i suoni del rock e del pop internazionale con gli elementi della tradizione musicale sarda. Faccio spesso questa domanda quando si tratta di world music e non posso non farla anche a voi. Qual è, nel caso dei Tazenda, la formula che permette l’incontro tra musica contemporanea e musica popolare? Com’è avvenuta in voi questa fusione?

Noi abbiamo avuto la fortuna di essere attivi artisticamente in un periodo in cui c’è stato un bel fermento da questo punto di vista. Abbiamo vissuto uno spartiacque con l’uscita di Passion di Peter Gabriel, colonna sonora del film L’ultima tentazione di Cristo (film di Martin Scorsese del 1989, ndr), nel quale Gabriel aveva cercato di mettere nello stesso calderone tutti gli strumenti e gli stili etnici che gli è stato possibile. Di li a poco è nata anche la sua etichetta, la Real World.

In quel periodo io, Andrea Parodi e Gigi Camedda ci stavamo appassionando alla ricerca della musica tradizionale sarda. Avevamo stretto amicizia con i Tenores di Bitti, che a loro volta avevano appena attirato le attenzioni di Frank Zappa. Tutto puntava in quella direzione. Allo stesso modo si stava sviluppando la riscoperta e la necessità di salvaguardia delle lingue e dei dialetti minoritari sardi. Noi, essendo giovani, curiosi e, soprattutto, coraggiosi, abbiamo colto tutto questo fermento e ci siamo immersi nel vortice. Avevamo anche passioni differenti: a me piaceva il progressive, ad Andrea il rock e cose più melodiche mentre Gigi amava il pop. Non ambivamo a fare ricerca e sperimentazione, ma partivamo da basi più semplici. Ognuno ha attinto dal proprio background, cavalcando il momento di rivalutazione internazionale della musica etnica. Probabilmente abbiamo anche avuto la bravura e la fortuna di battere un terreno ancora inesplorato, almeno in Sardegna, ma che era, ed è tuttora, ricchissimo. Credo che sia stato il mix di tutte questi fattori a permetterci di dire la nostra in quel preciso momento storico.

 

Dal vostro esordio come Tazenda ci avete messo pochi anni a conquistarvi un grande consenso da parte del pubblico nazionale. Da quel celebre Sanremo 1991 – in cui avevate presentato Spunta la luna da monte insieme con Pierangelo Bertoli – avete poi collaborato con alcuni tra i più importanti musicisti nazionali e internazionali e suonato in almeno tre continenti diversi. Quale di queste esperienze vi ha lasciato il segno più profondo?

È sempre difficile scegliere perché esperienze di questo tipo necessitano sempre di essere contestualizzate. Personalmente mi sono divertito e mi sono “nutrito”, ad esempio, in occasione del duetto con Gianluca Grignani. Probabilmente è stata una delle esperienze meno eclatanti ma lui è stato l’unico con il quale siamo stati davvero a stretto contatto umano, scambiandoci parti di canzoni scritte sui bigliettini a pranzo. Anche quando ho ascoltato per la prima volta la versione di Domo mia (primo singolo dell’album Vida, realizzato in duetto con Eros Ramazzotti, ndr) ad alto volume, sono rimasto scioccato. Era una cosa non prevista ed eravamo convinti non fosse nemmeno nelle nostre corde. Invece ha funzionato anche molto bene e in un certo qual modo lo avevamo intuito ancora prima ancora che uscisse. Abbiamo fatto da spalla ai Simple Minds e a Little Steven (Steven Van Zandt, chitarrista della E-Street Band di Bruce Springsteen, ndr). Siamo stati ospiti a casa di Fabrizio De Andrè.

Sono tante le esperienze incredibili. Ma credo siano state quelle durante le quali abbiamo visto gli esseri umani oltre i musicisti ad averci segnato maggiormente. Esperienze tutte diverse ma ognuna importante per una differente ragione. Veramente difficile sceglierne una a discapito delle altre.

Anche l’esperienza con i Modà di questi ultimi tempi è stata una cosa inaspettata e a suo modo eccezionale. Un gruppo di giovanissimi – per noi – arriva a proporci una cosa (il singolo Cuore e vento in duetto con i Tazenda, estratto dall’album Gioia, ndr), e contro ogni pronostico, funziona. Questo ci ha fatto definitivamente capire che non esistono confini generazionali e limiti di età nelle collaborazioni musicali. La canzone è anche piaciuta anche a chi non ama i Modà e, per contro, noi abbiamo raccolto consensi tra i loro fan e ce li siamo ritrovati sotto il palco ai nostri concerti. Ai concerti di tre uomini ormai di una “certa età” che cantano in sardo (ridiamo, ndr)!

 

Pochi probabilmente ricordano, invece, che tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 voi e Andrea Parodi, con il Coro degli Angeli, avete ricevuto le attenzioni costanti di Mogol oltre ad aver accompagnato in giro per il mondo Gianni Morandi. C’erano tutti i presupposti per entrare, sin da quegli anni, nel gotha della musica popolare italiana, ma voi, complici anche tutte le vicissitudini del gruppo, a un certo punto avete deciso di radicarvi musicalmente in Sardegna. Oltre alle motivazioni scontate, cosa vi ha spinto a percorrere questa strada, in un momento, per altro, in cui la world music non era stata ancora sdoganata anche in ambito pop?

Non so come spiegartelo. C’è stata un momento preciso in cui noi abbiamo fatto, forse inconsciamente, una scelta. A quei tempi volevamo cantare in inglese. Avevamo già un disco pronto e anche il nostro produttore dell’epoca spingeva in quella direzione. Il proprietario dello studio dove abbiamo inciso il disco ci chiese, come compenso in cambio della registrazione, un disco in sardo. Loro producevano le musicassette di Piero Marras, i Bertas e il Duo Puggioni. A noi stava bene e lo abbiamo realizzato con il Coro degli Angeli, senza applicarci più di tanto, a dire la verità.

Dopo poco tempo siamo andati a Milano a proporre a Mara Maionchi il nostro disco in inglese. A lei piacque molto il lavoro e ci chiese di poter ascoltare qualcos’altro. Noi avevamo il disco in sardo (Misterios, ndr) registrato per lo studio e glielo facemmo ascoltare. Lei rimase molto colpita e ci disse di prendere i due lavori e di fonderli insieme, a costo di correre il rischio di essere licenziata, a suo dire. Lei all’epoca era direttore artistico della Dischi RicordiCi diede così l’idea perfetta alla quale noi da soli probabilmente non saremmo mai arrivati: un disco prevalentemente folk e uno con fortissime influenze anglosassoni che messi insieme hanno creato quel mix che ha caratterizzato i primissimi dischi dei Tazenda. Ecco, probabilmente è stata questa la scintilla che ha innescato in noi questo processo di fusione. Che poi abbiamo portato avanti, affinato e rivisto negli anni. In realtà, dei due lavori, abbiamo utilizzato pochissimo materiale. Abbiamo spremuto fino all’osso l’idea, componendo le canzoni, scrivendone i testi in sardo e fondendo le due cose, cercando di astrarci dal fatto che eravamo sardi. Il risultato fu un album composto da canzoni con un forte piglio pop-rock anglosassone. Il resto l’abbiamo fatto giocando poi con l’elettronica e inserendo i suoni tipici della tradizione sarda, senza mai ricorrere agli strumenti originali, ma sempre filtrando, campionando, rovesciando e stretchando. Approccio che ha nel tempo definito e plasmato il nostro sound.

 

Ai vostri esordi avete partecipato anche voi a dei talent show, anche se all’epoca non venivano definiti tali. Ricordiamo il famoso Gran Premio nel 1990 in coppia con Paola Turci, che vi ha fatto arrivare alla ribalta del grande pubblico con Carrasecare. Sempre con lei avete vinto il Cantagiro l’anno seguente. Ora la formula dei talent sembra essere l’unica strada per emergere, ma in fondo anche voi all’epoca ne avevate tratto dei vantaggi. Che differenza vedete fra la TV di Pippo Baudo, del varietà, e quella social di X Factor o di Amici?

La differenza fondamentale, prima di criticare i talent, secondo la nostra esperienza è la seguente. Quando noi siamo andati da Pippo Baudo a fare Gran Premio avevamo nella valigia un disco che si chiamava Tazenda, con dentro Non potho reposare, Carrasecare, Sos ojos. Avevamo il nostro futuro pronto da tirare fuori il giorno seguente. Il disco, nonostante non lo conoscesse ancora nessuno, tra l’altro, era già stato pubblicato. Oggi le cose sono molto diverse. Io seguo i talent da ormai più di 10 anni e vedo troppi vincitori morire artisticamente all’indomani della chiusura del programma. Principalmente perché non c’è dietro un progetto. Non basta un progetto discografico, deve essere un lavoro che parte dall’artista. Qualcuno ce l’ha fatta. Penso a Marco Mengoni, ai nostri due ragazzi sardi Marco Carta e Valerio Scanu, anche se pure loro fanno fatica. Sei bravo, bello, esci e fai anche un Sanremo, ma se non alimenti il progetto con le tue idee, la spinta si esaurisce subito e rimani uno dei tanti che sono passati. Questi ragazzi dovrebbero arrivare ai talent con i loro bei 20-30 pezzi pronti, registrati, provinati o incisi, non con un demo di quattro pezzi, tre dei quali sono le cover che presenti alla trasmissione e che magari ritrovi anche al negozio di dischi. Trovo sia una cosa piuttosto triste. Soprattutto per loro.

 

Dalla scomparsa di Andrea Parodi avete dovuto affrontare diversi stravolgimenti della vostra formazione, l’ultimo dei quali ha visto approdare il cantante algherese Nicola Nite, scelto attraverso una selezione sul web. Com’è andata? Cosa vi ha spinto a scegliere proprio lui in mezzo a decine di candidati, immagino, comunque estremamente capaci?

La scelta è stata innanzitutto dettata da una nostra necessità di allontanarci radicalmente dal passato, senza dare troppi punti di riferimento, come si dice nel calcio. Non volevamo farlo, soprattutto, per evitare paragoni, comunque impossibili, improbabili e improponibili, con il passato. Con Andrea in modo particolare. Abbiamo perciò deciso di scegliere una voce diversa. Non volevamo nemmeno qualcuno da plasmare. C’erano dei grandi talenti con voci “angeliche” che arrivavano anche molto in alto. Ma su molti di loro c’era molto da lavorare. Mentre Nicola Nite, da polistrumentista con un passato solido, anche se non discografico, era un musicista prêt-à-porter. Già in grado di salire sul palco con la chitarra, con una buona padronanza della voce, con piglio e sicurezza emozionale e tutto il corredo per non avere gli impacci tipici dell’esordio. Questo ci ha portato a dire: “Prendiamoci il sicuro!” E ci ha anche consentito di uscire dalle atmosfere più cupe e affascinanti del nostro passato, dando spazio a una nuova presenza più solare e più comunicativa sul palco.

 

Avete appena concluso una lunga serie di date, sia in Sardegna sia fuori. Il pubblico vi ha sempre accolto molto calorosamente durante la vostra carriera. Com’è andata quest’anno?

Sì. In realtà abbiamo assistito ad una vera e propria escalation quest’anno. Le date di aprile non sono esattamente come quelle di agosto. All’inizio vengono a sentirti 1000 persone, a maggio inizia a scaldarsi l’atmosfera, non solo in senso metaforico, in giugno si avvicinano le vacanze, a luglio arrivano i turisti e ad agosto si tocca l’apice, che si protrae, scemando, fino a settembre. E pian piano si scivola verso la fine della stagione. Qualsiasi data fatta tra luglio e agosto ha avuto sempre lo stesso esito: tutti in piedi a saltare, cantare e ballare. E lo fanno meglio di noi! (ride, ndr)

 

C’è qualcosa di nuovo che bolle in pentola? Nuovi progetti, album o collaborazioni?

Abbiamo molte canzoni pronte, anche se non sono state ancora registrate in via definitiva. La pentola per far bollire le novità è sul fuoco. Il tour si è concluso lo scorso lunedi a Serrenti ed è stata una festa grandiosa. Potrebbero venire altre cose ma ormai consideriamo il tour concluso. Faremo 15 giorni di stacco per schiarirci un po’ le idee, poi andremo a goderci il Premio Andrea Parodi, dove avremo la possibilità di goderci musiche un po’ più rilassanti e meno legati ai tempi ristretti delle esibizioni a cui siamo abituati. Appena possibile torneremo anche in sala a cercare di costruire un nuovo format, dove capiremo anche quando i tempi saranno maturi per poter rientrare in studio.

 

Al Premio Andrea Parodi canterà anche la nostra Claudia Crabuzza, fresca vincitrice della Targa Tenco per l’album in dialetto Com un soldat e con un trascorso come cantante proprio dei Tazenda…

Vero. Claudia Crabuzza ha cantato con noi nei primissimi anni Duemila. Tra l’altro io ho scritto con lei il suo primo disco con i Chichimeca. Di quei 10 pezzi 7-8 sono miei. Adoro quell’album. Viola (la protagonista di uno dei singoli dell’album, ndr) è mia figlia, anche se la canzone non parla di lei. Quel disco è nato quando Claudia cantava ancora con noi. Andò in Messico per fare un periodo di esplorazione di quelli che erano un po’ i suoi orizzonti culturali. Quando tornò voleva fare qualcosa ma non aveva niente di pronto. Io, che non adoro scrivere senza aver del materiale su cui lavorare, le chiesi di darmi due idee. Lei mi consegnò così il diario di viaggio che aveva tenuto durante il suo soggiorno. Ed è da li che ho attinto tutti i pezzi che ho scritto. Molti pezzi non hanno una vera e propria struttura poetica in rima ma sono in prosa. Molti versi delle canzoni erano proprio così nel diari. Ho dovuto giusto metterli un po’ in metrica. Ci tengo davvero tanto a quel disco. E sono anche contento che lei sia riuscita a trovare una sua strada, una sua identità. Sono orgoglioso di averla attivata e, in qualche modo, instradata.

 

Grazie tante Gino e in bocca al lupo per tutti i vostri progetti!

Grazie a voi!

 

Intervista a cura di Simone La Croce

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>> La scheda

 

Il pianeta Tazenda, alla vigilia dei 30 anni di storia, nelle parole di Gino Marielli