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I SoftLOUD sono attivi da circa dodici anni e in questo tempo hanno visto avvicendarsi qualche batterista e ben tre album. Da A place to hide del 2009 a What if you’re right and they’re wrong? del 2015, passando per Emotional Anatomy del 2012, è passata parecchia acqua sotto i ponti ma i ragazzi, a cui va il merito di aver sempre saputo trovare “la giusta chimica, sia a livello musicale che umano“, sono rimasti in pista plasmando nel tempo un suono proprio che li ha connotati. Rispetto agli esordi contraddistinti da un mix tra British Rock e scena di Seattle, hanno saputo soppiantare la disperazione con la malinconia, a loro dire il sentimento dominante in gran parte dei brani, lato della band che trova facile sfogo anche in unplugged, tanto da fargli pianificare la pubblicazione di un po’ di materiale registrato live durante i loro concerti in acustico.

L’ultimo album What if you’re right and they’re wrong? è stato pubblicato in free downolad sul loro sito www.softloud.it e ora hanno intenzione di promuoverlo ancora prima di pensare al prossimo, per il quale c’è già qualcosa in cantiere. Ma non vi anticipiamo altro e vi lasciamo alla lettura di questa intervista concessaci da Cesare Bogazzi, il cantante e chitarrista della band.

 

Ciao Cesare. Siete attivi da quasi dodici anni e avete vissuto diversi cambi di formazione, che hanno visto avvicendarsi vari batteristi mentre tu e Alessandro Corrias siete rimasti al vostro posto. Nel vostro caso è stato complicato dover ricominciare da zero con l’innesto di un nuovo musicista o il fatto di aver conservato un nucleo chitarra-basso non vi ha creato difficoltà?

Il cambiamento è sempre complicato, anche se porta nuove sfide e nuovi stimoli. Non è facile dover ricominciare ogni volta da capo, per quanto abbiamo sempre avuto la fortuna di trovare persone che, grazie alla loro professionalità, ci hanno reso la vita più semplice. L’ostacolo principale è sempre creare la giusta chimica, sia a livello musicale che umano, e per ottenerla serve inevitabilmente tempo. La difficoltà maggiore crediamo sia stata proprio l’attesa, la dilatazione dei tempi, e un pizzico di frustrazione scaturita dalle circostanze. Ma – ci tengo a dirlo – il fatto che gli avvicendamenti siano stati dovuti non a incomprensioni o litigi, ma soltanto a scelte di vita dei nostri precedenti batteristi, Marco Caravagna e Gianmarco Mameli, ci ha permesso di affrontare con più serenità i periodi di cambiamento.

 

Avete tre album all’attivo, A place to hide del 2009, Emotional Anatomy del 2012, e What if you’re right and they’re wrong? del 2015, ognuno registrato con un diverso batterista. Il vostro sound è rimasto nel tempo abbastanza riconoscibile ma sappiamo bene che ogni album porta con sé una necessità di cambiamento. Nel vostro caso quali scelte o necessità ci sono state dietro ogni nuovo progetto?

Ognuno di questi dischi ha una sua storia, un suo background, che ai nostri occhi lo rende unico. A place to hide è stato il nostro primo lavoro in studio, raccoglie pezzi scritti durante un arco temporale abbastanza ampio, circa tre anni. Emotional Anatomy è stato invece più spontaneo. Il primo disco alternava brani scritti interamente da me ad altri composti insieme, il secondo invece è nato essenzialmente da improvvisazioni, sviluppate gradualmente fino a diventare canzoni fatte e finite. Per questo motivo abbiamo scelto di non utilizzare troppe sovraincisioni, volevamo che fosse un disco da poter ricreare tranquillamente anche live.

What if you’re right and they’re wrong? ha avuto una gestazione diversa: alcuni pezzi erano già stati scritti quando alla batteria c’era Gianmarco Mameli, altri sono nati dopo l’arrivo di Alessandro Atzori, ma la formula dello sviluppo di un’idea improvvisata è rimasta costante. Abbiamo voluto lavorare maggiormente sugli arrangiamenti, giocare anche un po’ con effetti o strumenti che solitamente non utilizziamo; ne è scaturito un sound che pur essendo sempre il nostro è più ricco di sfumature e che rimane riproducibile live.

 

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Nel calderone dei vostri gruppi di riferimento avete messo le band più disparate, com’è giusto che sia. Coldplay, Pink Floyd, Counting Crows, Stone Temple Pilots, Pearl Jam, Radiohead, Alice in Chains, Bob Dylan, Nirvana, Neil Young, Goo Goo Dolls, Sophia, Dinosaur Jr., Cure. Qualcosa di questi gruppi è possibile riscontrarla in un po’ tutto il repertorio. Ma il vostro sound è effettivamente molto ben marcato e immagino che ci sia qualcuno di questi gruppi che abbia condizionato in maniera più incisiva la scrittura dei pezzi. È così?

Potrà sembrare strano, ma la verità è che… non lo sappiamo! Abbiamo inserito tanti artisti diversi che ci hanno influenzato o a volte solo accompagnato nel nostro percorso, ma tutto quello che può essersi riversato nel nostro modo di suonare o di scrivere lo ha fatto in maniera involontaria. Anche perché abbiamo ascoltato nel corso del tempo musica di generi molto vari. In tanti continuano ad accostarci alla scena di Seattle e in particolare ai Pearl Jam, ma trovo che nei nostri brani, soprattutto nel nuovo disco, ci sia ben poco della band di Vedder.

 

Sulla vostra fan-page, alla voce “genere musicale” avete riportato “British Rock”, ma nei vostri brani sembra evidente una forte impronta anni novanta anche di altra provenienza. Ascoltando gli album è possibile avvertire un leggero ma consapevole distacco da alcuni archetipi musicali tipici quegli anni. Il contrasto tra forza e leggerezza ha un piglio diverso, a suo modo più “fresco” e meno stereotipato. Risulta effettivamente emozionale senza però quell’area di disperazione che aleggiava negli album dei compianti anni novanta. È così?

Credo che la grande importanza degli anni ’90 sia stato il fatto di aver riportato la musica a essere un qualcosa di maledettamente serio. In comune con quegli anni abbiamo un certo sound prettamente chitarristico, forse la maniera di impostare le linee vocali, ma ci sono anche tante differenze. La disperazione lascia spazio alla malinconia, che secondo me è il sentimento dominante in gran parte dei nostri brani.

 

Il vostro ultimo album What if you’re right and they’re wrong? è stato pubblicato in free downolad sul vostro sito www.softloud.it. Una scelta molto battuta in questa ultima decade da tante band indipendenti. Cosa vi ha spinto a questa decisione?

Abbiamo avuto diverse esperienze in passato, anche con case discografiche, ma dopo l’arrivo di Alessandro Atzori alla batteria sentivamo di trovarci all’inizio di una nuova fase. Ci siamo confrontati e abbiamo pensato che l’obiettivo principale fosse quello di far arrivare la nostra musica a un pubblico più vasto possibile: da qui la decisione di distribuirlo gratuitamente. Essendo però degli appassionati di musica, prima ancora che musicisti, sappiamo quanto conti “l’oggetto” e non solo il contenuto: ecco perché abbiamo deciso di rendere a breve disponibile il nostro lavoro anche in cd e vinile!

 

Sono molto interessato ai progetti grafici che si celano dietro le cover degli album. Che nel vostro caso non paiono affatto casuali ma, al contrario, molto ricercati. Sempre a proposito della vostra ultima uscita, sono rimasto colpito dal bianconiglio incazzato di “Alice nel paese delle meraviglie” che sulla copertina di uno degli artwork campeggia incazzato sopra la domanda “E se tutti avessero ragione e tu torto?”, che dà il titolo all’album, mentre nel retro distrugge l’orologio e se ne va sconsolato. Ci potreste raccontare meglio?

Gran parte del merito va all’artista che ha curato il progetto, Maristella Portas. Noi le abbiamo fornito alcuni input, lei ha colto alcuni aspetti fondamentali dei testi dell’album: il concetto del tempo, che ci fa sentire prigionieri, la necessità della fuga, il bisogno di fare qualcosa di inaspettato, fuori dagli schemi. Ci ha presentato un’idea, che poi abbiamo perfezionato insieme. Il risultato ci ha lasciato molto soddisfatti. Il bianconiglio, prigioniero del tempo, si libera e va controcorrente, invece che conformarsi alla massa. Ma i richiami sono numerosi, non solo al romanzo di Carroll. Vediamo chi riuscirà a trovarli.

 

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Mi è piaciuta molto anche l’immagine dei sistema cardiocircolatorio scelta per la cover di Emotional Anatomy, e anche per le locandine dei vostri spettacoli unplugged. Avete indicato una serie di aspetti dell’animo umano, come redenzione, insolenza, retrospezione, risveglio, sopravvivenza, malinconia, rinnovo, incoscienza, ritardo, disagio e empatia. Sono aspetti sicuramente legati a quel lavoro, ma credo che rappresentino un po’ tutto il vostro progetto… è così?

Effettivamente è un artwork che si adatterebbe senza problemi a tutta la nostra produzione. Non a caso abbiamo continuato a utilizzarlo non solo per la promozione di Emotional Anatomy, ma anche a distanza di tempo, fino a quando è nata la copertina di What if you’re right. È proprio così, rappresentano l’essenza di quello che facciamo come Softloud: “sezioniamo” le emozioni per comprenderle meglio. Nel caso specifico bisogna anche aggiungere che c’era un gioco di rimandi con i testi dei brani presenti nel disco, per cui a ogni pezzo era associata un’emozione particolare ma anche una parte del corpo, una sorta di gioco a incastri.

 

A breve dovrebbe uscire anche un vostro nuovo video. Potete anticiparci di cosa si tratta?

È passato un po’ di tempo dall’uscita di Circle, è tempo di produrre altro materiale video. Stiamo buttando giù delle idee, ci piacerebbe valorizzare alcuni brani presenti nell’ultimo disco, ma non solo. Puntiamo fortemente sul nostro lato acustico, pensiamo che suonare in versione unplugged possa essere un valore aggiunto. Ecco perché a breve vorremmo far uscire un po’ di materiale live di questo tipo.

 

E a proposito dei vostri progetti futuri, invece, potete anticiparci qualcosa? A quando un nuovo album?

C’è un’idea che ci ronza in testa da un po’ di tempo, ma non vogliamo anticipare niente. Diciamo solo che riguarda un buon numero di pezzi che finora non hanno trovato spazio nei nostri dischi, ma che abbiamo comunque continuato a suonare dal vivo. Per il nuovo album ci vorrà ancora un po’. Puntiamo ancora molto su What if you’re right e vogliamo pubblicizzarlo il più possibile!

 

Infine anche a voi veterani dell’Associazione, chiedo di fare i vostri saluti al clan Brincamus.

Certo! Ciao ragazzi, continuiamo a far crescere l’Associazione, che merita di diventare sempre più viva e importante, perché fa qualcosa di splendido per i sardi, la Sardegna ma soprattutto per chi ancora non sa quanto vale la nostra isola.

 

A cura di Simone La Croce

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L’arduo equilibrio tra forza e leggerezza nel rock dei SoftLOUD