KME2016

 

Si è svolta lo scorso weekend la decima edizione del Karel Music Expò – Festival delle culture resistenti, appuntamento di rilevanza ormai non solo più regionale, ma la cui eco ha già varcato il mare. “In nome del Padre” è il titolo dell’edizione di quest’anno e, stando ai propositi della Vox Day, storica agenzia di organizzazione e promozione di eventi cagliaritana, è anche la prima di una trilogia volta all’“abbattimento delle frontiere materiali e immateriali alla base dei conflitti nelle società e tra gli esseri umani”. Obiettivo ambizioso, ma stando a quanto già visto anche nelle edizioni passate, assolutamente alla portata. Una bella parte di frontiera è stata già tirata giù portando sul palco del Teatro Civico di Castello grandissimi nomi di livello internazionale e facendo esibire, al loro fianco, ottimi rappresentanti della scena isolana. E noi di Brincamus, nel nostro piccolo sempre molto attenti al fermento culturale della nostra terra, siamo andati a sbirciare, con occhi e orecchie, l’offerta musicale (e non solo) nelle giornate clou del festival del 7 e 8 ottobre 2016. Qui di seguito le impressioni che abbiamo raccolto.

Il cartellone prevedeva per questa edizione due tranche di esibizioni, a differenza degli anni passati, durante i quali i gruppi si dividevano tra main stage e acoustic set sempre all’interno del Teatro Civico. Quest’anno i set sono collocati in differenti momenti temporali. Il primo si è svolto, con ingresso libero, tra le 20 e le 22 ai Giardini sotto le mura, nuovo spazio urbano impreziosito dalle sculture di Pinuccio Sciola e riconquistato dalla città, con grande soddisfazione dei fruitori. La seconda, come di consuetudine, si è svolta all’interno del Teatro e ha ospitato gli headliner dell’evento.

 

L’arduo compito di rompere il ghiaccio nella prima delle due serate clou quella di venerdi 7 ottobre 2016 – è spettato ai nostrani Trigale. La formazione ha retto bene l’impatto del pubblico non ancora numeroso, vista l’ora, proponendo la loro miscela di country, bluegrass e rock’n’roll. Un powertrio essenziale e asciutto che ricrea dopo il primo pezzo, atmosfere hillbilly decisamente atipiche per le platee mediterranee, ma che non dispiacciono affatto ai presenti.

A seguire Carlo Addaris presenta al pubblico, che man mano aumenta, il suo ultimo lavoro “Metamorfosi”, progetto solista di pop elettronico cantautorale, dando giusto un tocco di ardore in più a quanto già sentito negli ultimi due decenni di “musica alternativa” in Italia. La platea comunque si incuriosisce, dimostra gradimento e si avvicina timida al palco.

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Ultra Violent Rays, photo by Stefania Desotgiu

Gli ultimi a esibirsi ai Giardini sotto le mura sono gli Ultra Violent Rays, primo gruppo straniero che probabilmente avrebbe meritato il main stage. Cooper Gillespie, alla voce e al basso, e Greg Gordon alla batteria costituiscono un anomalo duo, solo apparentemente space pop (come amano definirsi), ma con un mal celato spirito dark, rafforzato dalla presenza scenica della cantante e dalle basi elettroniche che riempiono i pezzi. La voce angelica e melodiosa di Cooper fa da contrasto alla rabbia, solo a stento repressa, di Greg, e mostra tutte le sue sfaccettature nella intensa cover di Rooster degli Alice in Chains.

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Soviet Soviet, photo by Stefania Desotgiu

Terminata l’esibizione il pubblico pagante si sposta al Teatro Civico, dove, puntuali, sul main stage aprono il fulcro della serata i Soviet Soviet, balzati agli onori della critica con il loro album “Fate” del 2013. Il trio basso, chitarra, batteria, si esibisce in una delle loro solite esibizioni calde e coinvolgenti. Il pubblico, solitamente abbastanza composto, non aspetta nemmeno che sia la band a chiederlo, si accalca sotto il palco a ballare e a dare quella spinta in più ai tre, che gradiscono, ricambiando con il loro post-punk al fulmicotone, intriso di hardcore, Cure e Placebo. Gran finale, dopo circa un’ora senza soluzioni di continuità, con outro rumorista durante la quale “omaggiano”, a loro modo, il pubblico, rivolgendogli anche le casse spia per rafforzare il wall of sound e ringraziandolo ripetutamente per non essersi fatti pregare di stare in piedi.

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Wrongonyou, photo by Stefania Desotgiu

Il tempo del cambio palco, rapido ed efficace, e si prende la scena un altro pezzo importante della musica cosiddetta “indipendente” nostrana: il cantautore Marco Zitelli, meglio noto come Wrongonyou. Il campionario del musicista romano spazia da Dylan a Damien Rice, passando attraverso Springsteen, Jack Johnson e tutto il repertorio folk-rock che tanto ha appassionato questi ultimi anni hipster e non. I primi pezzi vanno via piacevoli, senza troppi effetti, giusto qualche campionamento. Tutto cuore, voce e chitarra, con la quale dimostra anche di avere buon feeling. Musica per praterie e highways infinite. Le radici folk sono ben evidenti ma il risultato è elettrico e sporco. A macchiare, se così si può dire, un’esibizione comunque di altissimo livello, sono stati probabilmente i troppi effetti, forse superflui, per  una voce che non ne ha certo bisogno e che ha dimostrato di dare il meglio nelle belle cose semplici di una volta. Ma quando la musica nel complesso raggiunge questi livelli si può anche chiudere un occhio.

Grande assente della serata l’attesissimo Stuart Brathwaite, compositore e chitarrista dei Mogwai, una delle band che maggiormente ha contribuito a definire il post rock dalla seconda metà degli anni novanta a oggi e a riempire, anche se solo in parte, il grande vuoto lasciato dal grunge. Problemi di salute l’hanno tenuto lontano dalla Sardegna, con la promessa di tornare appena possibile, senza deludere chi aveva già acquistato il biglietto. Aspetteremo con trepidazione.

 

A cura di Simone La Croce

Fotografie di Stefania Desotgiu

 

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