IMG_0147

 

Avevo poco più di vent’anni quando ricevetti in regalo il Porgy and Bess eseguito dall’Orchestra Jazz della Sardegna, con alcune magistrali parti vocali di David Linx e la tromba solista di Paolo Fresu. Per le mie orecchie, abituate fino ad allora a chitarre arrabbiate e sferraglianti, fu una scoperta sensazionale. Avevo già avuto contatti con il jazz ma non tali da segnarmi di lì in avanti. Un’opera “classica”, piena di standard, lontana dalle musiche chi mi avrebbero appassionato in seguito, alle quali è stata però capace di avvicinarmi. Parte di questo merito – oggettivamente non paragonabile a meriti musicali ben più rilevanti – lo ho sempre riconosciuto a Paolo Fresu, e la mia convinzione ha sempre trovato conferma a ogni disco ascoltato e a ogni esibizione alla quale sono stato presente. Paolo si è dimostrato nel tempo uno dei più importanti talenti musicali nati in Sardegna costretto – per sua fortuna – a viaggiare tanto, ma senza andar mai via veramente dall’isola. Come racconta lui stesso, forse è stata anche quella lontananza a permettergli di diventare il musicista che è diventato e di guardare al patrimonio musicale isolano, storico e non, con il distacco necessario. A lui vanno riconosciuti i meriti di aver fatto esibire in Sardegna grandi musicisti da ogni parte del mondo – fatto non di secondaria importanza per chi vive in un’isola – e di aver contribuito a “formare” il background culturale di chi, musicisti e non, ama la buona musica, e non solo il jazz. Ed è proprio di musica che si è parlato principalmente in questa intervista, lunga e forse poco adatta al web, per la quale è risultato molto difficile operare dei tagli che, a mio personale avviso, eliminassero il superfluo. Ma questo è il risultato, del quale ringrazio infinitamente l’intervistato.

 

Nel libro di Enzo Gravante Paolo Fresu – La Sardegna, il jazz, si evince in diversi passaggi quanto a te non siano mai andati particolarmente a genio certi approcci alla “world music”. In Sardegna, negli ultimi 30 anni c’è stata una profonda contaminazione tra musica tradizionale e contemporanea, che ha portato all’affermarsi, da un lato, della world music e, dall’altro, anche di diversi jazzisti che di questa contaminazione hanno saputo fare tesoro, oltrepassando quei confini senza comunque liberarsi di quell’etichetta. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione a riguardo.

Ho sempre nutrito delle remore verso certe operazioni che sono state fatte in passato con la musica tradizionale. Fino a quando anche io non sono caduto nella rete con Sonos ‘e memoria, dove però il trattamento del materiale tradizionale, dal mio punto di vista, è stato differente, più rispettoso, nel quale ognuno ha apportato il proprio contributo e la propria musica. Sono d’accordo con te sul fatto che in questi ultimi 25-30 anni sono usciti tanti progetti validi e interessanti, che hanno comunque aperto delle porte. Credo che in Sardegna oggi ci sia una grandissima vitalità, specie tra i giovani, ma poca contaminazione con la musica tradizionale, specie tra i jazzisti più affermati. Fanno eccezione forse Enzo Favata, Gavino Murgia o Paolo Carrus (autore già nel ’92 di Sardegna oltre il mare). Ma in generale, tra i musicisti, non sono tanti quelli che si pongono il problema.

Questo credo derivi, per certi versi, dalle difficoltà che si incontrano nel portare il materiale tradizionale nel mondo del jazz senza cadere nel già sentito o nel già visto. E i musicisti jazz – anche i giovani – probabilmente preferiscono bypassare il problema attingendo direttamente dalla cultura afro-americana, che è semplicemente un’altra forma di musica popolare. Da una parte c’è un problema di comunicazione e di esportazione – la gran parte delle cose buone che si fanno in Sardegna sono molto poco conosciute fuori dall’isola – e dall’altra c’è, forse, una certa reticenza a trattare il materiale tradizionale con il dovuto rispetto perché è sempre un terreno minato.

 

Per te quindi, sarebbe doveroso approcciarsi al repertorio tradizionale con maggior rispetto della sua storia e del suo tessuto musicale?

Sì, da una parte è una questione di rispetto. Per me, almeno, allora lo è stata. Poi, in generale, è subentrata anche una certa reticenza nell’affrontare cose che avessero un suono “conosciuto”. Ma le eccezioni ci sono. Progetti molto interessanti e per certi versi inaspettati, come il caso di Zoe Pia, giovane clarinettista, nostra allieva a Nuoro, la quale ha realizzato Shardana, un disco che, nel suo piccolo, ha avuto un certo successo nel mondo del jazz. Le musiche che ha composto sono meticciate con i suoni della Sardegna, con le launeddas e altri strumenti tradizionali, e riporta un racconto dell’isola inusuale e molto interessante. Purtroppo non è casuale che Zoe non stia in Sardegna. Fuori dall’isola, come accade a molti, si riesce a vedere la Sardegna con quella lontananza e quel distacco che consentono di non essere troppo coinvolti.

Ma tra gli artisti che in questi anni hanno fatto della buona contaminazione tra jazz e musica tradizionale ci sono anche il chitarrista e cantante Paolo Angeli e il contrabbassista Riccardo Lay. Il primo, con la sua chitarra sarda preparata, svolge da anni un intelligente lavoro di ricerca attenta e profonda del repertorio tradizionale e di rielaborazione della musica vocale della “sua” Gallura. Riccardo Lay è da decenni figura di spicco del mondo del jazz che, attraverso una contaminazione sincera e viscerale, ha anticipato i tempi del meticcio e della nuova musica sarda.

È pur vero che il filone etno-jazz nell’isola non è mai stato molto seguito. Se pensiamo che quando Marcello Melis, allora pioniere e precursore di questa visione, ha pubblicato The New Village on the Left, con il Tenore Rubanu di Orgosolo, Roswell Rudd e Enrico Rava, non c’era veramente nulla di simile. Quella strada, a parte episodi sporadici, non è stata molto battuta. Oltre ai nomi che ho fatto prima, ci sono lavori come quelli di Antonello Salis che sono “etnici” di loro e non hanno bisogno di confrontarsi con la tradizione perché ne sono totalmente immersi ma con una contemporaneità enorme, fatta di personalità e di vita vera. Ma lui è un outsider non inquadrabile in nessuna di queste categorie. Mi chiedo spesso se l’idea di Antonello sia fatta tanto di rifiuto quanto di rispetto della tradizione, senza mai rinunciare a suonare comunque quello che gli passa per la testa. E niente vieta che questo possa essere uno dei modi migliori per tramandarla davvero questa benedetta tradizione. Poi, come se non bastasse, c’è anche una difficoltà di rigidità del repertorio.

 

IMG_0850

 

Da musicista ritieni quindi che esistano dei limiti intrinsechi che in qualche modo possano restringere le possibilità di “trattamento” del repertorio tradizionale?

Il canto a tenore, ad esempio, è molto ripetitivo. Trattarlo è estremamente difficile. Anche il repertorio dei cuncordu è musicalmente statico, per quanto molto interessante, così come la musica polifonica, sia quella profana che quella sacra. Elena Ledda ad esempio lavora molto con la musica vocale monodica. Ma lei parte dalla tradizione e va verso il jazz. Non c’è quasi nessuno che fa il percorso inverso.

Ad eccezione, forse, delle launeddas, c’è anche un problema legato alla strumentazione, come la scarsa varietà di strumenti a percussione, ad esempio. Uno dei grandi paradossi della Sardegna è che c’è una grandissima ricchezza musicale, anche geografica, di stili ma anche di lingue, oltre a tante persone che ci lavorano su, ma il materiale non è ricchissimo sotto il profilo degli strumenti e del repertorio.

 

È molto interessante il discorso sulla contaminazione nel jazz e sulla sua vocazione più o meno popular. Miles Davis, in una celebre intervista, aveva dichiarato di non amare il termine “jazz” e che la definizione “social music” identificava meglio quello che faceva. Non ne faccio una questione di termini quanto di contenuti, ma mi pare di capire che questa definizione si sposi meglio con il tuo percorso artistico. Credo che in questa affermazione ci siano almeno due aspetti molto importanti. Il primo è sicuramente legato alla possibilità che “quella” musica possa arrivare a un pubblico vasto e eterogeneo. Ti ritrovi in questa visione?

Assolutamente sì. Io credo che la musica non possa essere fatta solo per noi musicisti ma anche per il pubblico. È un linguaggio esattamente come gli altri: qualcuno parla, qualcun ascolta, lo riprende e lo rielabora. Diversamente diventa un dialogo univoco, un monologo. Non avrebbe senso. Sul palco ci sei tu, i musicisti con cui suoni e il pubblico in platea. Tutti si dialoga. Allo stesso modo, anche i dischi devono arrivare alla gente, diversamente sarebbero solo dei complementi di arredo. Non credo debba essere questa l’aspirazione dei musicisti.

Il jazz ha attraversato tante fasi. Periodi durante i quali ha avuto un profondo significato sociale. Altri in cui il musicista doveva stare concentrato su se stesso e momenti in cui chi si dedicava agli altri veniva dipinto come “venduto”. Lo stesso Miles Davis è stato additato più volte a questo modo. Lui strizzava l’occhio al rock, o ad altri generi, quando c’era il misticismo di musicisti come Coltrane che, con A love supreme, faceva invece un lavoro intimo di introspezione profonda. A love supreme si è rivelato in seguito uno dei dischi più venduti della storia del jazz, anche più di dischi incredibili di Davis.

Credo che tante cose siano cambiate rispetto ad allora e oggi il jazz riconosce una essenza popolare alla propria tradizione. Anche in Europa si tende a riagganciarsi al jazz afro-americano, che nasce come musica popolare per evolversi, diventando genere di rottura e di denuncia, spesso anche molto ostico, allontanando anche ampie fette di pubblico, come è accaduto con il free-jazz.

 

L’altro aspetto legato alle social melodies, sollevato da Davis, faceva riferimento al tipo di musica che possa prestarsi alla sua re-interpretazione in chiave jazzistica. Aspetto nel quale l’Europa, con la sua tradizione musicale anche molto distante dal jazz, ha giocato un ruolo molto importante. 

Per merito dell’Europa – e dell’Italia, aggiungerei – anche il free-jazz, ad esempio, ha riscoperto una sua matrice popolare. Poi a qualcuno potrebbe sembrare bizzarro sentire Bollani suonare una melodia nota o un brano d’opera, oppure me stesso incidere la Norma di Bellini e brani di Claudio Monteverdi. Questo per dire che, al di là del materiale che si tratta, credo che sia più importante il modo in cui lo si tratta. Niente vieta di prendere qualsiasi brano, da qualsiasi tradizione popolare, e suonarlo secondo il proprio respiro. Quello che faceva Miles Davis è stato un po’ questo. La melodia “popolare” serviva per arrivare al pubblico in maniera più incisiva, ma questo non rendeva la sua musica commerciale. Era comunque una musica estremamente evoluta e sempre molto ricercata. Davis è stato uno dei grandi della storia del jazz che mai si è voltato a guardare il passato. La definizione social music secondo me è ben rappresentativa in questo senso. Il jazz deve essere una musica sociale, una musica in grado di arrivare a chiunque. In che forma debba farlo lo stabilisce ogni singolo artista. Suonare in un teatro vuoto non è il massimo della soddisfazione. Tanto vale stare a casa a suonare con gli amici. Il senso della musica credo sia raccontare a un pubblico – sia esso di un concerto o di un certo mercato discografico – quello che il musicista sente.

 

IMG_5256_BW

 

E la tua musica come credi si collochi in questo discorso?

Io stesso non eseguo una melodia di Monteverdi o Almeno tu nell’universo per conquistare l’approvazione del pubblico. Sinceramente non mi pongo questo problema. Suono quelle canzoni perché davvero mi piacciono, perché ne apprezzo la struttura armonica. A febbraio uscirà il nuovo disco, completamente acustico, di Devil, il quartetto con Bebo FerraPaolino Dalla PortaStefano Bagnoli, nel quale sarà presente anche il tema della soap opera Un posto al sole. La suoniamo in maniera scherzosa, ma fondamentalmente perché troviamo che quel brano abbia una bella linea melodica.

Miles era uno curioso, che amava la musica: ha suonato con i Toto e ha eseguito brani di Cyndi Lauper, senza porsi problemi o alzare barriere tra ciò che era jazz e ciò che non lo era. Perché allora andrebbero ridiscussi i dischi che ha fatto con Gil Evans, Sketches of SpainMiles Ahead e Quite nights, dove c’era la canzone spagnola o il corcovado brasiliano. Oppure Dear Old Stockholm, da Young Man with a Horn del ’52-’53, una canzone popolare svedese rivista e incisa con Coltrane. Tutto è interpretabile. Nella storia del jazz gli esempi che esulano totalmente dai suoi standard tradizionali sono tantissimi. Lo stesso standard nel jazz in fondo non esiste. Coltrane suonava le canzoncine per bambini che venivano da Broadway. Non era jazz? Quelle erano le canzoni popolari di allora. Tutto può diventare standard nel momento in cui il jazzista lo tocca e lo fa suo. Non inventiamo niente. Tutto quello che facciamo è stato già fatto in passato.

 

D’altronde se Miles, o chi come lui, non se ne fosse fregato altamente delle critiche non avrebbe fatto quello che ha fatto…

Secondo me sì.  Lui aveva un altro pensare relativamente alla comunicazione. È stato uno dei primi personaggi pubblici nel jazz a travalicarne i limiti, specie in termini di fama, e a spostarsi in luogo più vasto. Ma questo è accaduto più per indole che per scelta repertoriale. Lui suonava quello che amava e la sua musica arrivava a un pubblico vasto perché lui lo voleva. Quando si interfacciava con i musicisti rock lo faceva proprio perché gli piaceva quel suono. Era un segno di grande apertura e curiosità.

 

L’anno scorso ho avuto occasione di assistere al concerto con Omar Sosa e Jaques Morelenbaum durante il quale avete suonato Eros. È stata forse la prima volta in cui ho realizzato con più consapevolezza che la musica suonata, e il jazz in particolare, possa farsi portatrice di contenuti molto profondi legati alle emozioni e ai sentimenti senza bisogno di spiegarli con le parole. Come vivi tu questo transfert tra musicisti e ascoltatori? 

Io mi auguro sempre che questo accada. In quello specifico lavoro, nel quale l’Eros era inteso come quintessenza del pensiero del bello e della comunicazione. La bellezza della musica sta nel fatto che in qualche modo arriva. Come dicevamo prima, deve però avere la forza e la voglia di arrivare. Deve essere concepita per quello. Con la musica strumentale si deve lavorare sull’emozione, sul colore del suono, e ognuno la coglie in modo differente. A qualcuno tocca la testa, ad altri il cuore, ad altri ancora lo stomaco. Le porte di ingresso della musica sono diverse, così come le percezioni di ognuno di noi. Quello che facciamo sul palco è cercare di condividere queste emozioni: attraverso l’interazione, il gioco e anche solo gli sguardi proviamo a comunicare gioia, tristezza o melanconia. Lo offriamo alla gente, evitando di dare un’indicazione precisa su come la si dovrebbe percepire e lasciando che ognuno la possa fare sua, secondo la propria apertura, la propria esperienza o il proprio vissuto.

Quando si parla di musica come linguaggio universale si parla proprio di questo, di qualcosa che può arrivare a tutti indipendentemente dalle geografie, dalle posizioni sociali o dalle religioni. A tutti coloro che non sono chiusi a se stessi, ovviamente (ridiamo, ndr). Se ci si apre ai suoni, nel senso acustico del termine, il concerto può diventare un amplificatore emozionale, nel quale mille persone respirano la musica in contemporanea e possono farla propria in mille modi diversi.

Quando il brano finisce tutti improvvisamente applaudono insieme e, in qualche modo, “si incontrano”. Ed è li che si palesa un altro valore molto significativo, e altrettanto sottovalutato, che è quello del silenzio. Questi giorni uscirà un libro che ho fatto per Il Saggiatore, intitolato La musica siamo noi e pone l’accento proprio sull’importanza del silenzio, su quel momento in cui, finito il concerto, non accade nulla. Quell’attimo in cui l’assenza di suoni diventa preziosissima. Nel libro cito, a proposito, Claudio Abbado, il quale, al termine di una sinfonia di Mahler ha chiesto al pubblico di osservare un minuto di silenzio. Ho sempre trovato questa metafora molto bella perché se la musica, come dicevamo, è in grado di mettere d’accordo tutti, lo stesso è in grado di fare il silenzio.

 

IMG_2430

 

Del tuo evento ¡50 del 2011, durante il quale hai suonato per 50 giorni consecutivi in 50 diverse location della Sardegna, arrivando a coinvolgere 250 artisti da tutto il mondo, si è detto tanto. Quello che mi sono chiesto io è se c’è stata una sensazione più ricorrente di altre che hai provato durante quei 50 giorni.

È una cosa difficile da descrivere. Ho preso molti appunti durante quei cinquanta giorni, che sono poi confluiti in un libro (In Sardegna. Un viaggio musicale, Feltrinelli, 2012, ndr), proprio perché le sensazioni – così come i pensieri a caldo, i dati o i nomi – erano talmente tante che dovevo appuntarle giorno per giorno. Non avevo mai fatto un progetto così impegnativo, ricco e profondo insieme. E forse non ne farò mai più uno analogo. Riconosco, però, che durante il tour ho provato una sensazione di totale armonia con quello che stava accadendo. Non solo con chi ha suonato e collaborato per la riuscita dell’evento, ma proprio con i luoghi, la musica, l’ambiente, la storia e la gente. Un matrimonio felice con tante cose. Quello a cui ogni uomo dovrebbe ambire ogni giorno. Credo che il successo di un’esibizione sia decretato da tante cose, non solo dalla qualità di esecuzione in sé, ma, appunto, dagli spazi che la ospitano, dal pubblico e dall’aria che si respira. In quei giorni questo miracolo è accaduto quasi quotidianamente. È un fenomeno raro e quando accade con una tale frequenza è incredibile, soprattutto perché in ogni concerto si è manifestato in un modo unico e irripetibile.

 

Hai composto le musiche dello spettacolo Human nel quale recita, in un cast di altissimo livello, anche la nostra Elisa Pistis. Uno spettacolo sulle migrazioni, tema sempre, purtroppo, molto attuale più per la disperazione e le atrocità che le accompagnano che per il loro valore in termini di scambio tra uomini e culture diverse. Come ti sei approcciato allo spettacolo e qual è stato il tuo apporto al progetto?

Marco Baliani e Lella Costa sono due cari amici con cui ho lavorato tanto. Con il primo in Kenya abbiamo seguito dei progetti dell’Amref con i ragazzi di strada, mentre con Lella abbiamo fatto tanti progetti, reading e spettacoli. Mi hanno chiesto di comporre le musiche di questo spettacolo – Human – e io ho accettato, chiedendo loro cosa si aspettassero da me e, contemporaneamente, provando a lavorare sul copione, cercando di dare il mio contributo. Ho scritto due brani, Human e Human Requiem, che sono diventati poi la colonna sonora dello spettacolo, infarcita con i campionamenti dei suoni delle migrazioni. Sonorità che rimandano alle quotidianità di questo dramma, suoni di barche, persone e voci poi ripresi nello spettacolo, come una sorta di sonorizzazione dal vivo. Completa il lavoro un’aria di Claudio MonteverdiSì dolce il tormento, chiestami appositamente da Marco e da Lella. Questa composizione, che ho più volte inciso e suonato live, è stata re-incisa appositamente per lo spettacolo in diverse versioni, come se fosse il leitmotiv di un film. Il lavoro finale deriva quindi dall’apporto di tutti, dalle proposte degli autori e dai miei contributi personali, frutto dell’interpretazione dell’aspettativa narrativa.

 

L’Associazione Brincamus si adopera, tra mille difficoltà, per dare una possibilità in più ai musicisti sardi di saltare il mare e uscire dai confini, materiali e immateriali, dell’isola. Anche organizzare piccoli eventi che valorizzino musicisti e territori diventa spesso molto difficoltoso. Che cosa ti senti di consigliarci, o di consigliare a chi come noi si affanna per questi progetti, come anche tu hai fatto a tuo tempo, pur in situazioni e contesti differenti?

È difficile dare un consiglio. Quando scrissi il programma della prima edizione del Time in Jazz, trent’anni fa, una delle poche cose riportate in quel foglio A4, che conservo ancora, era l’obiettivo di farne un appuntamento con cadenza annuale che potesse continuare nel tempo. Nonostante le difficoltà, che a ogni edizione si fanno più evidenti rispetto a quella precedente, ogni anno aggiungiamo un tassello diverso, la struttura, anche umana, si rafforza e il pubblico si fidelizza. Tutto ciò fa sì che ogni edizione diventi uno dei tanti capitoli di un lungo libro. Credo che guardare lontano sia fondamentale. Chiuso il festival, noi già ci dedichiamo all’edizione successiva, a quale tema impostare e a quali artisti invitare. Nonostante il nostro sia diventato un evento internazionale, abbiamo comunque molte difficoltà. Ogni anno si riparte daccapo senza nessuna certezza, anche per un “piccolo monumento culturale” della nostra isola, quale io ritengo sia diventato il festival di Berchidda. Un festival costruito con serietà e professionalità, che restituisce una bella immagine della Sardegna, diversa e positiva. Ma in questa situazione, ogni anno dobbiamo rispiegare a tutti cosa siamo (ride, ndr). Mi rendo conto che se tutt’oggi è difficile per il Time in Jazz, sul quale la mia “notorietà” ha grande influenza, immagino quanto possa esserlo per Brincamus. Io vi spronerei a insistere, ad andare avanti spediti e a costruire un progetto lungimirante nel tempo, che possa man mano portarvi a capire quali siano le strade migliori da battere. Non focalizzatevi su un’unica idea che si consuma e finisce, ma pensatela in modo che possa essere ripresa e ridefinita, riacquisendo così sempre nuova linfa vitale.

 

Grazie Paolo, cercheremo di farne tesoro.

Grazie a voi e buon lavoro.

 

Intervista a cura di Simone La Croce

Fotografie di Stefania Desotgiu

© Riproduzione riservata


LEGGI IL LIVE REPORT SUL CONCERTO DI EROS AL ROCCE ROSSE BLUES

>> Live Report! Il nostro Simone La Croce al Rocce Rosse Blues 2016

>> Paolo Fresu, Omar Sosa e Jaques Morelenbaum presentano il loro ultimo lavoro Eros

 

Il senso di Paolo (Fresu) per la musica
Tagged on: