Giordo

Maurizio Giordo è un attore teatrale. Ma leggendo l’intervista che segue, vi accorgerete anche voi che probabilmente è molto di più di questo. Artista poliedrico e dinamico, Maurizio è appassionato di arti di strada, musica, giocoleria e ovviamente teatro. Fa fatica a stare fermo e si dedica a tantissime attività, spesso contemporaneamente.

Non molto tempo fa abbiamo avuto occasione di chiedergli qualche impressione sul primo studio del Macbettu, trasposizione in sardo del celebre dramma shakespeariano e questa volta, in seguito all’uscita del secondo studio, abbiamo approfondito l’argomento.

Ma nell’intervista si parla anche di tutto il teatro di Maurizio, dei suoi innumerevoli progetti, delle sue visioni, dei personaggi che ha deciso portare in scena e del perché ha deciso di farlo. Un’intervista che, trattando in primis di teatro, spazia tanto sui valori universali che questo contempla e su quelli personali di Maurizio. Vi auguriamo buona lettura.

 

Ciao Maurizio, è andato in scena qualche settimana fa il secondo studio sul Macbettu, diretto da Alessandro Serra. Che cosa è cambiato rispetto al primo studio e quanti ancora prevedete di farne prima dello spettacolo vero e proprio?

In realtà, rispetto al primo studio, nella sostanza non è cambiato granché. Siamo andati avanti con la storia e abbiamo sicuramente migliorato la prima parte, facendo tesoro di quanto imparato durante il primo studio. Ora abbiamo fatto un bel passo avanti e mancherebbe giusto il duello finale tra Macbettu e Macduff, che metteremo a punto a gennaio nella nostra nuova residenza a Carbonia, dove appunto chiuderemo il cerchio. Dovremmo ancora provare tanto senza pubblico fino al debutto definitivo nel 2017.

 

Si è rivelata utile, per voi e per lo spettacolo in generale, la presentazione dei vari studi che portate in scena?

Più che utile direi che si è rivelata fondamentale. Dal primo studio ci è arrivato tanto. I personaggi, i suoni, i silenzi, gli elementi di scena, hanno dato tanti feedback importanti al regista. Abbiamo aggiunto comunque tanti elementi nuovi e migliorato alcune azioni: siamo ormai arrivati a oltre un’ora e mezza di spettacolo. Abbiamo cercato di capire quali effetti abbiano sortito sul pubblico gli elementi del primo studio e gli effetti che potessero sortire i nuovi elementi aggiunti. D’altra parte il teatro si fa per il pubblico, e, in questo senso, il pubblico è sovrano.

 

Ma è più importante il feedback che arriva dal pubblico rispetto a quello che vedete voi attori sul palco o che vede il regista?

Beh, in realtà, in questo momento tutto ha la sua importanza. E’ il regista che osserva il pubblico, lo spettacolo e noi attori sul palco, ed è lui che capisce ch cosa va bene e che cosa invece potrebbe essere rivisto e migliorato. Come altrettanto importante è, per noi, sentire il nostro respiro interno sul palcoscenico. Ma ci rimettiamo comunque nelle mani del regista Alessandro Serra.

 

Tu porti in scena anche Com’è nato il giullare, tratto da Mistero Buffo di Dario Fo, che poco tempo fa ci ha lasciato. Hai deciso di metterlo in scena ricorrendo anche al dialetto di Porto Torres. Il tuo dialetto. E’ un esperimento portato avanti anche con il Macbettu. Che cosa significa trasporre spettacoli scritti con linguaggi così diversi da quelli originali?

La trasposizione serve, innanzitutto, ad avvicinare un testo o uno spettacolo al proprio cuore, al proprio sentire e quindi anche alla lingua dei propri sentimenti. Lo stesso Dario Fo chiedeva ai propri allievi, qualora non riuscissero a esprimere al meglio una battuta dello spettacolo, di provare a esprimerla nel proprio dialetto. In questo modo faceva loro notare quale fosse il piglio e la sincerità con i quali avrebbero dovuto esprimere quel pensiero. Trovo che Com’è nato il giullare sia uno spettacolo tuttora estremamente attuale, nel quale la comunicazione è fondamentale. Parla di quanto sia importante la parola e, in certi frangenti, ricorrere al dialetto è stata più una necessità comunicativa che una scelta scenica. Il dialetto mi riporta a un teatro popolare e nobile allo stesso tempo. Si è ricorso anche all’italiano per renderlo più fruibile, specie al di fuori della Sardegna.

 

Sempre per rimanere in argomento, stai provando in questi giorni anche il tuo La discesa dei giullari. Hai portato in giro lo spettacolo a Siligo il 4 dicembre, l’8 a Olbia, il 9 a Dorgali, l’11 Sassari e il 14 ad Alghero al Festivalguer, Festival Internazionale di Performing Arts, intitolato quest’anno Ma sei fuori!?!. A chi ti ha già visto e a chi ancora non l’ha fatto, che cosa possiamo raccontare a riguardo?

Lo spettacolo La discesa dei giullari, come ripeto anche in scena, è stato un po’ un modo per tradire l’antica consuetudine che vede il giullare come un menestrello emarginato e solitario. Il giullare (sardo) che porto in scena io, parte alla scoperta delle terre dove questi hanno mosso i primi passi. Partendo da Turris (Porto Torres, ndr) e passando per Karalis (Cagliari, ndr), lascia la Sardegna alla volta di Tunisi, dove incontra un albero di ulivo che cammina, spinto da un artigiano matto, il primo ad accompagnarlo nel suo viaggio intorno al Mediterraneo. Viaggio che si snoda attraverso Turchia, Est Europa, Germania, Belgio, Francia e, infine, Italia. Nel viaggio incontra diversi personaggi, ognuno con una storia da raccontare, che si uniscono alla carovana e con i quali prosegue il cammino. Oltre alla narrazione vera e propria, abbiamo inserito diversi elementi-simbolo nello spettacolo che ne potessero caratterizzare gli aspetti più umani trattati: penso ad esempio all’albero di ulivo, simbolo di pace e di fratellanza, ma anche la creatura “cangiante” e asessuata, e certamente positiva, né uomo né donna, incontrata in Germania. Ma in generale lo spettacolo è permeato di libertà, solidarietà, fratellanza, riscatto dall’oppressione della realtà quotidiana che i personaggi, ognuno proveniente da un diverso paese, attuano, intraprendendo il viaggio, per raccontare di se stessi e di cosa li ha portati a unirsi.

 

Il giullare sembra una figura chiave del tuo teatro. Proveresti a spiegarci in poche parole cosa rappresenta per te?

Posso iniziare col dirti cosa non rappresenta per me. Il giullare è sempre stato visto come personaggio poco serio, non affidabile, falso e ipocrita. Per me è tutto il contrario. Per come la vedo io, il giullare, è colui che si prende la responsabilità di dire sempre la verità, specie quella scomoda. Sconvolgendo spesso chi lo sta ad ascoltare. Come d’altronde capita anche a me durante gli spettacoli. Il giullare ribalta l’ordine costituito. Non a caso è sempre stato bistrattato, sepolto fuori dai cimiteri, fuori dalle mura delle città, attaccato con la lingua al portone, associato a prostitute, barboni, mendicanti e accattoni. E’ un personaggio ai margini ma allo stesso tempo centrale. Senza dimenticare che è anche stato una figura fondamentale nella storia del teatro, avendo ereditato la tradizione teatrale greca e romana e avendola traghettata, con il pretesto dell’intrattenimento dei potenti, a suo modo e in tante forme diverse, fino ai giorni nostri.

 

Perché hai deciso di portarlo in scena per strada?

Questa scelta coincide invece con una mia esigenza personale. Io, dopo sette anni di palcoscenico nei teatri, ho sentito l’esigenza di mettere in scena qualcosa di mio che risaltasse l’importanza della comunicazione e della parola. E che mettesse in discussione, in qualche modo, anche le nuove tecnologie, che ci hanno messo in contatto con il mondo ma reso anche molto soli, ognuno nelle proprie case. Ho desiderato anche guardare il pubblico negli occhi e condividere il mio lavoro artistico con esso. Quindi questo spettacolo è nato in strada principalmente per uscire dal buio del teatro e per portarlo in mezzo alla gente, laddove davvero agivano i giullari. Ma anche per conferire all’esibizione quel pizzico di sorpresa e imprevedibilità che un palcoscenico variabile come la strada può dare. Ho avuto la fortuna di farlo sotto la pioggia, in spiaggia a Messina, nei vicoli e nelle piazze di Palermo, dentro un museo a Cagliari, ogni volta adattando la messa in scena, e le capacità di noi attori stessi, a contesti sempre diversi. Anche lo spettatore stesso diventa parte attiva nello spettacolo: in strada possiamo comunicare in maniera molto diretta e il pubblico percepisce questa cosa, diventa più partecipe e si lascia coinvolgere molto di più nelle storie che vengono raccontate. E’ anche questo spirito di unione, e comunione, che rende la rappresentazione in strada per me molto speciale.

 

La tua agenda è già piena così. Ma immagino che nonostante questo ti stia occupando anche di altri progetti. Ci puoi dire qualcosa in proposito?

Ho tante cose in mente. Alcune sono solo dei progetti ancora molto embrionali e te li racconterò più avanti, se ci sarà occasione. A dicembre, su commissione del Comune di Olbia, ci esibiremo con il Treno Clown. In questo spettacolo, del quale curo la direzione artistica, io sarò un clown capotreno che condurrà il trenino turistico della città di Olbia, accompagnando i passeggeri attraverso quattro piazze-stazioni sparse per la città, dove ad troveranno altrettanti spettacoli clowneschi con i loro regali-spettacolo.

 

Una cosa alla quale, prima o poi, mi piacerebbe dedicarmi, è un teatro civile che tratti dei problemi attuali della nostra isola, della nostra nazione e del mondo in generale. Me lo immagino di stampo classico ma con linguaggi contemporanei, magari intrecciando teatro narrato, arti visive e musica elettronica. Vedremo.  

 

Saluti a Brincamus?

Io non posso fare altro che ringraziarvi tutti per l’impegno che mettete in questa missione di diffusione degli artisti sardi fuori dall’isola. Cosa di cui c’è bisogno e della quale voi siete dei nobili artefici. Io, e credo gli altri artisti, vi siamo grati per tutta la disponibilità, il coraggio e anche la serietà che riponete in quello che fate. Auguro a voi, e anche a noi artisti, sempre il meglio affinché non rimaniamo né seduti, né in piedi, ma brinchende.

 

A cura di Simone La Croce

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Le mirabolanti peripezie giullaresche di Maurizio Giordo
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